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L’Atlante marocchino e il vero spirito gravel, Mattia De Marchi si racconta

Dopo un assaggio di professionismo, oggi Mattia De Marchi è uno specialista della gravel. L’atleta, classe 1991, nel 2016 ha vinto una tappa del Tour of China, poi decide di lasciare questa realtà fatta di numeri, watt e allenamento senza sé e senza ma, per dedicarsi a una disciplina completamente diversa, quella dell’ultraciclismo.

“Non ritengo di essere mai stato un pro” ci confida. “Per me oggi la bici è esplorazione, una pedalata piacevole senza stress e misuratori”. Vive a poche decine di chilometri da Venezia, ma quando pedala si spinge verso Bassano del Grappa o in direzione delle montagne vicentine. “La prima salita dista 40 chilometri da casa, quindi tra andata e ritorno siamo già a 80 chilometri. Probabilmente se abitassi più vicino ai monti farei molti meno chilometri ma più dislivello”. Con due vittorie consecutive all’Ultracycling Dolomitica, una delle più dure gare al mondo, non può certo dire di non saperci fare con i rapporti corti: 683 chilometri, 16 passi dolomitici per 16mila metri di dislivello positivo che De Marchi nel 2019 ha superato in poco più di 29 ore. Lo abbiamo contattato per conoscere meglio sia la persona che la filosofia che lo anima.

Mattia, prima ci hai detto che non senti di essere mai stato un professionista. Ci racconti la tua breve esperienza nel mondo dei pro?

“Io ho avuto l’occasione di fare lo stagista poi, dopo la vittoria in Cina, tutto sembrava andare alla grande. Ho atteso invano la chiamata per un contratto a cui è seguita la voglia di lasciar perdere tutto. Alla fine ho fatto ancora un anno in Austria nel 2017, un anno che ho trascorso tra aerei, treni notturni e serrati ritmi di allenamento. È stato un periodo pieno, sia di soddisfazioni che di delusioni.”

Chiusa questa porta sei subito passato alle gare su lunga distanza?

“No. Ho avuto un momento di sconforto e dispiacere in cui non sapevo bene cosa fare. Mi sono quasi sentito perso. Dopo anni a seguire una ruotine ben precisa non ho toccato la bici per mesi. Andavo a correre, ho dedicato tempo agli amici. Poi un giorno sono tornato a pedalare, per il gusto di farlo, senza obiettivi.”

E come sei arrivato all’ultraciclismo?

“Tramite l’organizzatore dell’Ultracycling Dolomitica che mi propose di provare, dato che facevo spesso giri su lunghe distanze. Ero molto titubante, passare da 200 chilometri a 700 non è uno scherzo. Alla fine ho scelto di tentare ed è andata bene. Non conoscevo nulla di questo mondo a cui mi sono dedicato per un anno e mezzo partecipando alla maggior parte delle competizioni esistenti.”

Da lì alla gravel il passo è breve…

“Questo è un percorso che si è aperto recentemente per me, grazie all’Atlas Mountain Race in Marocco (una gara in autosufficienza per gravel attraverso la catena dell’Atlante lunga circa 1200 chilometri, nda). Penso a oggi una delle più belle esperienze a cui abbia mai preso parte.”

Parliamo di gravel, è un mondo ibrido. Tu come lo vivi?

“Questa è una domanda che mi fanno speso. Per me è uno sfogo, un modo per sfuggire alle strade trafficate e ritrovare libertà nella pedalata. Ci sono diverse interpretazioni, anche se bisogna fare attenzione a non spingersi troppo oltre. Rappresenta un ottimo modo per isolarsi dai percorsi classici che ho frequentato negli anni degli allenamenti. Grazie alla gravel ho scoperto salite di cui ignoravo l’esistenza, ho riscoperto luoghi che frequento da sempre come le Dolomiti o l’Altopiano di Asiago.”

Visto che l’hai citata prima, com’è andata in Marocco? Avventura o gara?

“Ammetto di essere partito per vincere, poi ci sono stati diversi accadimenti che mi hanno fatto cambiare idea. A un certo punto ho rotto il manubrio, ho pensato di ritirarmi, poi è scattato qualcosa e mi sono detto: ok, non posso lasciar perdere. Dopo il primo passo, dove ho goduto di panorami incredibili, mi sono reso conto di non aver staccato gli occhi dalla ruota per tutta la salita. Cosa stavo facendo? Ero in un posto dove non ero mai stato e pedalavo con il paraocchi senza divertirmi. Da qui tutto è cambiato e ho iniziato a godermi la catena dell’Atlante e lo spirito della gravel. Ho vissuto esperienze intense: mi sono fermato a bere il tè in una tenda con delle signore che tessevano; ho condiviso il tavolo degli abitanti dei villaggi di montagna che mi hanno accolto nelle loro case. Vissuto attimi d’intimità che porterò sempre con me.  

Ci sono stati momenti molto frustranti, perché non mi ero mai messo alla prova su terreni così duri, ma il piacere del rapporto umano con queste genti ha un sapore unico. All’arrivo poi ho pensato: già finita?”

Cos’è invece per te l’ultraciclismo?

“Per me è stato un nuovo obiettivo da raggiungere dopo aver chiuso il capitolo pro. Nell’immaginario generale si pensa che significhi allenamenti massacranti, ma nella realtà non è così. Dopo un certo numero di ore in sella l’allenamento serve a poco, o hai la testa o cedi. La mente conta tanto, devi focalizzarti su quella quando ti alleni, capire se dopo 35 ore sui pedali senza quasi dormire hai ancora voglia di andare avanti.”

Com’è stata la prima volta?

“Ero all’Ultracycling Dolomitica, è stato bellissimo. Ricordo un momento particolare, ormai erano quasi passare 24 ore ed ero poco dopo il Passo di Giau. Da qualche ora non mangiavo più, non sentivo la fame. Terminata la discesa ho visto un grande prato e mi sono detto, ‘ok, io mi fermo qui e mi faccio una bella dormita’. Sembrava così accogliente quel fazzoletto di terra. Il gruppo di amici che mi seguiva sul mezzo di supporto ha iniziato a cercare un modo per farmi ripartire, ma davvero io stavo bene lì, loro potevano anche andare avanti se volevano. (ride)

Mi hanno buttato dell’acqua gelata in faccia e fatto bere un paio di caffè doppi, poi sono ripartito. Quando ho pensato che davanti avevo solo più 150 chilometri mi sono quasi sembrati pochi anche se continuavo a pensare che dopo aver raggiunto il traguardo non l’avrei mai più rifatto. Poche ore dopo, appena sceso dalla bici, ho iniziato a immaginare la prossima gara.”

Non ci hai ancora spiegato come è nata la tua passione per la bici…

“Diciamo che la bici è un po’ la passione di famiglia, anche se mio padre non mi ha mai spinto in questa direzione. La voglia di farlo in modo agonistico nasce durante un pomeriggio di fine anni Novanta a casa dei miei cugini Alessandro (attualmente pro) e Francesco. Quando ho visto le bici e i caschi sono rimasto estasiato e ho chiesto a mio papà di provare. Probabilmente non vedeva l’ora che glielo chiedessi.”

Oggi vivi di ciclismo?

“No. Ho un lavoro part time che mi permette di pedalare e di crearmi parallelamente il mondo in cui un giorno vorrei vivere. Non è facile, ma per come sono andati gli ultimi mesi il mondo della bici ha buone potenzialità di crescita.”

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