Tempesta Vaia, la lezione che abbiamo imparato
A due anni da Tempesta Vaia, inauguriamo la serie di articoli dedicati alla calamità naturale che, dal 26 al 30 ottobre del 2018, ha colpito duramente il Trentino-Alto Adige, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia, con un’intervista a Tommaso Anfodillo, docente di Ecologia presso il Dipartimento Territorio e Sistemi Agro Forestali dell’Università di Padova.
Prof. Anfodillo, sono trascorsi due anni da Tempesta Vaia. Che cos’è successo in quei giorni?
“Nei giorni di fine ottobre 2018, si è creata un’area depressionaria di una rarissima profondità tra le isole Baleari e la Sardegna. Questa depressione ha determinato la formazione di venti fortissimi da scirocco (Sud-Est) che hanno raggiunto velocità massime misurate di oltre 190 km/h, interessando prevalentemente le regioni di Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia. La depressione, poi, ha causato contestualmente precipitazioni intense in due ondate (ben oltre 400-500 mm), anche superiori agli eventi dell’alluvione del 1966, che hanno determinato eventi di dissesto molto gravi”.
C’è un perché? A ricordo d’uomo era già accaduto un evento simile?
“Sebbene i climatologi affermino che non è facile definire un rapporto causale tra la Tempesta Vaia e i cambiamenti climatici in atto, tuttavia bisogna riconoscere che, nel versante sud delle Alpi eventi di questo genere finora erano del tutto sconosciuti: nessuno potrebbe testimoniare di avere mai visto un evento simile a quello di Vaia. A nord delle Alpi, invece, eventi simili (o anche molto peggiori come conta dei danni) si sono verificati con frequenza relativamente alta (in Svizzera, ad esempio, gli uragani Vivian nel 1990 e Lothar nel 1999)”.
Qual è l’eccezionalità di Vaia?
“È stato un evento eccezionale per quanto riguarda le velocità del vento raggiunte, l’ammontare delle precipitazioni e dei dissesti associati e, soprattutto, per i danni alle foreste”.
All’indomani della Tempesta, qual è stata la conta dei danni in termini di foreste?
“Complessivamente è stata colpita una superficie di foresta di circa 42.000 ha. La provincia autonoma di Trento ha subito i danni maggiori (circa 19.500 ha su una superficie di circa 390.000 ha, circa il 5%). In Veneto sono stati colpiti circa 12.000 ha (su una superficie forestale complessiva della regione di circa 400.000 ha, circa il 3%). In provincia di Trento, i due terzi delle superfici hanno subito un abbattimento di oltre il 50% degli alberi ma in circa il 40% della superficie gli alberi sono stati completamente abbattuti. La foreste più danneggiate sono state quelle di conifere (in particolare di abete rosso)”.
Note dolenti a parte, ci sono stati anche degli aspetti non-negativi legati a quest’evento?
“L’impatto sull’economia dei territori montani è stato molto serio e rilevante. Tuttavia, in certe aree questo evento ha determinato anche una profonda riorganizzazione di tutto il settore forestale e delle modalità di pianificazione, oltre che la necessità di predisporre la formazione di tutti gli addetti a un livello superiore. Penso che, nella malaugurata ipotesi dovesse capitare un altro evento simile, il “sistema-forestale” complessivamente saprebbe reagire con maggiore prontezza e capacità tecnica. Questa innovazione “forzata” della filiera foresta-legno, infatti, è un aspetto positivo che non può essere trascurato. Penso anche che molti abbiano interiorizzato quanto sia essenziale avere un sistema di gestione di questo bene pubblico così importante per le comunità delle montagne e per il benessere di tutti noi. Chissà che questo non porti ad una maggiore attenzione della politica verso le foreste”.
Di fronte a una tale calamità naturale, come ha “reagito” il bosco?
“Per ora, il bosco ha “reagito” alla sua maniera: con calma ma con determinazione. In molte superfici (ma non in tutte) si vedono già dei piccolissimi alberelli che cercano di farsi largo tra la vegetazione erbacea. È il bosco del futuro che avanza. In altre superfici, l’uomo sta cercando di “aiutare” la Natura piantando piccoli alberi allevati in vivaio per velocizzare il processo di ricolonizzazione delle superfici abbattute. Molte ricerche hanno però dimostrato che non è detto che le piantine del vivaio riescano a crescere meglio e più velocemente di quelle che la natura spontaneamente ha fatto nascere”.
E l’uomo?
“Distinguerei i “non addetti ai lavori” e “i forestali”. Per i primi sicuramente l’impatto emotivo è stato fortissimo. Gli alberi rappresentano per molti il simbolo stesso della Natura e le immagini di questa Natura “distrutta” hanno provocato un senso di disperazione profonda, aggravato dalla difficoltà di giudicare dal punto di vista tecnico la gravità dell’evento. Anche per “i forestali” è stato un momento molto drammatico ma almeno noi eravamo consapevoli che le foreste non erano state “distrutte” ma solo abbattute. Avevamo la consapevolezza che la foresta, con i tempi lenti della Natura, sarebbe ritornata. Il problema ora è gestire la mancanza dei benefici (o dei servizi) che i boschi fornivano prima dell’abbattimento. Ad esempio, queste superfici non potranno fornire del legno da vendere per almeno 50-60 anni oppure non potranno più essere frequentate da escursionisti per almeno 30-40 anni. Non dobbiamo dimenticare, però, che incombono su di noi i possibili effetti dei cambiamenti climatici: se questi fenomeni dovessero diventare più frequenti (come molti sostengono) non potremmo più far fronte a danni sempre maggiori. I boschi nel futuro cambieranno e, probabilmente, non nelle forme che per noi sono le ‘migliori'”.
Che cosa ci ha insegnato Tempesta Vaia?
“Non direi che Vaia ci abbia insegnato qualcosa di veramente nuovo ma, con forza, ha portato alla luce quanto molti ecologi, selvicoltori avveduti e conoscitori della natura scrivono da tanto. Le foreste formate da una sola specie (come l’abete rosso) sono, in genere, meno resistenti agli eventi meteorologici e che le foreste con strutture monoplane (ossia con tutti gli alberi di una stessa dimensione) sono anch’esse più suscettibili ai danni da vento. Vista la forza eccezionale del vento è vero che diverse tipologie di foreste sono state danneggiate ma la severità è stata maggiore nelle strutture monoplane e monospecifiche. Vaia ci ha confermato anche che le conifere sono più suscettibili ai danni del vento rispetto alle latifoglie (anche se vi sono stati abbattimenti di molti faggi) perché hanno in genere chiome più dense (e con le foglie) anche in autunno/inverno, quindi avere una foresta formata sia da conifere sia da latifoglie potrebbe essere comunque una strategia per ridurre i possibili danni”.
In futuro, possiamo fare qualcosa per evitare altri simili eventi?
“Vaia ha rappresentato un evento del tutto nuovo per i territori del Nord-Est che deve far riflettere su come gestire in futuro eventi simili. Questa tempesta ci ha “allertati”, ci ha comunicato la possibilità che tra qualche decennio Tempesta Vaia diventi la “norma”. Una prospettiva su cui siamo obbligati a riflettere e che dobbiamo considerare già da ora nella pianificazione forestale: le foreste del futuro saranno quelle che facciamo ri-nascere adesso”.
L’analisi mi sembra bella, bello anche il rinfrescare nelle persone gli insegnamenti millenari, ma mi piacerebbe veder proporre e fare qualcosa per “pulire”, non solo per aggiustare le “robe” rotte e pensare al futuro.
Quando passo mi sembra di vedere sempre gli stessi disastri da due anni.
Non so se lasciare marcire tutto sia una scelta ponderata in modo giusto per il nostro ecosistema antropizzato.