Ultimo saluto a Matteo Pasquetto. Della Bordella: “Abbracciami Berna, il mondo ha bisogno di persone come voi”
Sarà celebrato oggi, martedì 11 agosto alle ore 15, il funerale dell’alpinista Matteo Pasquetto, deceduto a seguito di un incidente in discesa sulle Grandes Jorasses del Monte Bianco, dopo aver aperto una nuova via sulla parete est insieme a Matteo Della Bordella e Luca Moroni. La cerimonia si svolgerà presso la chiesetta di Entreves, a Courmayeur, tra le montagne tanto amate da Matteo. Non mancheranno a dargli un ultimo saluto, in quello che avrebbe dovuto essere il giorno del suo 26esimo compleanno, gli amici più cari.
L’ultimo saluto di Matteo Della Bordella
Dei tanti messaggi di cordoglio giunti dal mondo alpinistico negli scorsi giorni, quello del Presidente dei Ragni di Lecco Matteo Della Bordella arriva dritto al cuore di tutti.
“Non ci sono parole, non ci sono risposte. Ci sono solo tanti pensieri e domande, una su tutte rimbomba nella mia testa dall’ultimo momento in cui ti ho visto: ‘perché è successo a te e non a me?’.
Quando rivedo in foto noi tre in cima alla Standhardt mi sembra tutto un brutto sogno, ma l’immagine di te che camminavi pochi passi avanti a me e di quella tragica scena stampata nella mia mente mi riportano alla realtà. Quei momenti rimarranno impressi nella memoria come ferite profonde che a fatica si rimarginano e che non si cancellano. Il ricordo della persona e dell’amico che sei stato per me e per tanti di noi rimarrà per sempre ancora più vivo e lucido che mai. Mi hai stupito fin dalla prima volta che abbiamo scalato insieme: sorriso, entusiasmo, energia, curiosità. Eri poco più che un ragazzino quando una Vigilia di Natale ci siamo legati alla stessa corda per la prima volta. Ti ho proposto di salire la via “Futura” al Poncione d’Alnasca partendo in giornata da casa in uno dei giorni più corti e freddi dell’anno, quel giorno ho capito subito che insieme avremmo potuto fare grandi cose.
Come alpinista eri ‘avanti’. Non c’è bisogno di fare classifiche o usare superlativi assoluti, ma penso che fossi una delle persone di maggiore talento che avessi mai conosciuto. Eri un passo avanti a tutti, nell’approccio alla montagna a 360 gradi: quel tuo sorriso stampato e l’immancabile voglia di sparare cazzate non toglievano spazio a una preparazione meticolosa, nel minimo dettaglio di ogni salita e ad una estrema serietà e lucidità nel prendere ogni decisione. Tutto ciò unito ad un fisico che sembrava avere energie illimitate e che spesso mi ha fatto dubitare di riuscire a starti dietro. Quando un anno e mezzo fa siamo andati in Patagonia insieme, solo noi due, avevo delle ottime sensazioni e pensavo fossi il compagno giusto per quel sogno forse più grande di noi sul Cerro Torre. Con te per la prima volta ho percepito il cambio generazionale quando mi sono arenato sul primo tiro del diedro degli inglesi e sei stato tu, con il tuo buon umore e la tua calma a darmi il mitico “pugnetto” in sosta e a prendere il comando, forse non te ne sei reso conto, ma per me ha significato moltissimo. Mi hai spalancato davanti una porta ed allo stesso tempo hai dato anche a me energie nuove da investire nella nostra cordata.
La cosa che più di te mi ha sempre colpito, però è il tuo lato umano. Non hai mai conosciuto l’egoismo, una cosa più unica che rara nel mondo della montagna ed hai sempre messo i bisogni e le necessità dei tuoi compagni davanti alle tue, in modo per me quasi imbarazzante. Come quando dopo una giornata campale mi lasciavi la migliore piazzola da bivacco, ti offrivi di portare lo zaino più pesante oppure, testardo come un mulo, continuavi ostinato a battere la traccia nella neve con me dietro che arrancavo.
Teo, certe cose io non me le so spiegare, mi hai dato tantissimo, hai dato tantissimo a tutti quelli che ti hanno incrociato in questi anni. Abbracciami Berna da lassù e pensate ogni tanto a noi che siamo qua, il mondo ha bisogno di persone come voi“.
Luca Moroni e quel pugnetto da battere prima di un tiro
Anche Luca Moroni, testimone inerme dell’incidente dello scorso venerdì, ha voluto salutare con un messaggio pubblico l’amico perduto troppo presto.
“La prima volta che ci siamo conosciuti era al corso del CAI di Varese. Appena finito il corso, eravamo entrambi due ragazzini inesperti che stavano cercando di imparare ad andare in montagna, volevamo mettere in pratica le cose che avevamo imparato, andando a fare una salita per noi speciale. Speciale perché era la montagna che ogni mattina appena svegli cercavano da casa. Avevamo deciso di andare a fare la normale alla punta Dufour, ai tempi per noi una salita molto impegnativa. Dopo questa salita avevamo capito davvero che potevano cambiare marcia e dopo molte salite assieme, siamo arrivati sotto la parete nord dell’Eiger dove abbiamo vissuto una delle nostre avventure più grandi e che per tutti e due è stato significativo per capire cos’era l’alpinismo per noi. Il nostro percorso è continuato e siamo cresciuti semplicemente inseguendo i nostri sogni uno accanto all’altro aiutandoci a vicenda a superare i momenti di difficoltà. Semplicemente eravamo e saremo sempre fratelli perché nel sangue ci scorrerà sempre questo amore per la montagna.
Tu sarai sempre con tutti noi in qualsiasi avventura che andremo ad affrontare tra le montagne più sperdute di questo mondo, perché è quello che tu hai sempre voluto fare e che adesso continuerai a fare. Matteo ed io su qualsiasi tiro facile o difficile che era e che sarà ci batteremo sempre il pugnetto. Un gesto motivazionale di Matteo che ha contagiato tutti quelli con cui ha scalato. Ricordatevi che Matteo ve lo batterà prima di ogni tiro”.
Ma perche l alpinismo di punta del nostro tempo sta sacrificando cosi tante vite?
Da alcuni anni provo a darmi una spiegazione.
Penso che la focalizzazione sul grado, che si è capaci di salire e quindi gli allenamenti intensissimi per raggiungere livelli “distinguibili”, non permetta a gente giovane di farsi esperienza sul terreno di montagna.
Sono tutti digiuni di “classicone”, fanno sempre vie sportive con spit che danno sicurezza, ma loro non sanno cosa sia la sicurezza in se stessi.
Si vedono tante persone che hanno salito anche degli 8a (a spit e sapendo di poter volare con una certa tranquillità) che su un tiro di 5° grado di 50 metri, magari con due chiodacci si imbranano e non sanno salire: basta leggere i tempi attuali di ripetizione delle vie classiche (devono mettere e togliere infinite protezioni).
Poi nei tratti facili su roccette di 2° o 3° e roba sporca sembrano dei vecchietti come me, che chiedo di legarmi o di fare doppie, perché non so più cosa sia l’equilibrio sui piedi.
E poi ormai dalle vie si scende in doppie (spittate) e se si sbaglia qualcosa si chiama l’elicottero.
Penso sia un effetto della nostra società che non vuole ci si senta responsabili e le cause o le colpe non sono mai dell’individuo che cade in errore….. l’auto che esce di strada, il sasso che cade dalla parete per colpa del comune, l’assenza di un cartello di pericolo sul sentiero, le previsioni meteo sbagliate in montagna ……. allora elicotteri e squadre di soccorso per tutto, magari doppi o tripli…… forse troppi diritti e pochi doveri, o la furbizia o la vanità imperanti…… chissà.
Però si dice anche da sempre che in alpinismo si devono superare i 24-27 anni per abbassare le probabilità di morire.
Ma i professionisti muoiono anche maturi, specialmente sul facile e in corda tesa coi clienti.
Forse a forza di spiegare come andare in sicurezza in montagna, o di voler fare business, ci si è dimenticati di continuare a ripetere che ANDARE IN MONTAGNA E’ SEMPRE MOLTO PERICOLOSO
Gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta o Novanta non sono stati meno tragici. Ci hanno portato via molti nomi che avrebbero potuto dare tanto più di quel che han dato all’alpinismo (Renato Casarotto, Giancarlo Grassi, Lyonel Terray, Louis Lachenal, Jean Couzy, Jean-Marc Boivin, Benoît Chamoux e molti altri). Fa parte del gioco della montagna.