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Paolo Rumiz ci recensisce il suo ultimo libro: “Il veliero sul tetto. Appunti per una clausura”

Il 18 giugno esce nelle librerie “Il veliero sul tetto. Appunti per una clausura” di Paolo Rumiz. Abbiamo chiesto allo scrittore triestino di recensire per noi il suo ultimo libro.

Un viaggio nel tempo e nello spazio

Ho scritto un diario della mia quarantena, trascorsa per senso civico ed età anagrafica “a rischio” rigorosamente nella mia casa di Trieste, definendolo come “il viaggio più interessante di tutta la mia vita”.

Il titolo del libro è “Il veliero sul tetto. Appunti per una clausura” perché, durante i mesi del lockdown, avevo eletto il tetto del mio condominio come la “plancia” di un veliero. Essendo rinchiuso in un perimetro e non potendo viaggiare in senso orizzontale, il primo spostamento che ho sentito la necessità di fare è stato di esplorare la dimensione verticale.

Quindi, ho iniziato con il ridiscendere fisicamente nelle cantine, dove ovviamente c’è un accumulo di cose che rappresentano un po’ il passato di ciascuno di noi, fino poi a salire sul tetto di casa sopra il quale – in una città come la mia – la vista è libera di spaziare a 360° su fondali paesaggistici che vanno da tutte le Alpi orientali al fronte della Grande Guerra, all’inizio di un mondo che, fino all’Oceano Pacifico, non vedrà più altri mari. Qualcosa come undici o dodici fusi orari di steppe. E tutto questo, tu lo puoi vedere e lo puoi percepire semplicemente stando lì. Percepisci la vicinanza di Venezia e la partenza delle navi e dei traghetti turchi che, con la bandiera con la mezzaluna che garrisce al vento, passano davanti alle Alpi innevate per andare in Asia.

Pertanto, ce n’è più che a sufficienza per immaginare e, se il viaggio è soprattutto immaginazione, devo confessare che negli ultimi mesi io ho viaggiato. Quest’avventura è stata un saliscendi continuo dai fondali, dalla “sentina” alla “coffa”, dalla quale potevo monitorare l’arrivo della “balena bianca” (una delle ri-letture più amate dallo scrittore Paolo Rumiz durante la sua quarantena triestina è stato “Moby Dick” di Herman Melville, ndr) e, nel contempo, un viaggio interiore dal profondo dagli abissi di me stesso – in cui, nonostate i precedenti e molteplici viaggi, fino a quel momento mi ero soffermato così poco – fino ad arrivare alle grandi visioni d’insieme di un fututo che tutti noi dovremo saper affrontare in un modo nuovo.

E infine ho anche viaggiato nella dimensione temporale perché, in un breve lasso, passavo dall’immaginazione del passato, leggendo Omero e la mitologia greca, per poi “saltare” direttamente alla fantascienza. Soprattutto nei momenti in cui chiedevo a me stesso: «Dove stiamo andando?», il passato e il futuro sono stati molto presenti nel mio pensiero. E contemporaneamente, anche a livello degli incontri. Passavo dal dialogo al telefono con Boris Pahor, lo scrittore sloveno di (quasi) 107 anni che vive a Trieste, si ricorda ancora dell’influenza spagnola e che, con i suoi racconti, ti fa iniziare un viaggio indietro nel tempo nelle precedenti pandemie (per capire come, anche oggi, non ci sia niente di nuovo sotto il sole!) ai miei nipotini ai quali raccontare delle fiabe tramite lo schermo del cellulare. Una scorribanda nel tempo e nello spazio che, proprio la costrizione in casa, mi ha obbligato a fare. E questa prigionia mi ha liberato.

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