Trekking

L’alba del trekking in Nepal

Tutto ebbe inizio quando l’ex ufficiale britannico James Roberts, forte delle sue esperienze nell’organizzazione di spedizioni alpinistiche, decise per primo di rivolgersi a chi non ambiva a conquistare le vette, ma voleva camminare al loro cospetto.

Testo tratto dal numero di Meridiani "Nepal".

Valle di Gokyo, alba. Le notti a 4mila metri sono fredde e anche se il cielo ha iniziato a schiarire la voglia di uscire dal sacco a pelo non c’è. Poi la chiusura-lampo della tenda si apre e una mano porge una tazza fumante. «Good morning, sir!» dice Ang Ritha, uno degli sherpa del gruppo. Mentre ci si scalda le mani sulla tazza, sorseggiando piano il caffè bollente, lo si sente ripetere il rituale davanti alle altre tende. Trovata la forza di alzarsi e raggiunta la tenda-mensa, la colazione è già lì che aspetta. Bevande calde, pane chapati, perfino le uova con il bacon. Quando ci si mette in cammino, verso un passo lontano, il freddo è ancora pungente, ma le coccole del risveglio hanno preparato tutti alla giornata. La sera, dopo una lunga marcia, si arriva al campo già montato, con l’acqua calda per lavarsi e un’altra bevanda calda da gustare in attesa della cena.

Tra i due estremi della giornata, ovviamente, ci sono i piaceri e i problemi del camminare per ore e ore su un sentiero. L’afa delle tappe a bassa quota e la tormenta dei 4mila metri, le gambe che dicono basta quando manca ancora un valico e i mille acciacchi del trekker, dal naso ustionato dal sole alla tosse causata dalla quota, dalle ginocchia indolenzite dai gradini in discesa alle vesciche sulle dita dei piedi. «Si può camminare in tutto il mondo, ma i riti e i piaceri del trekking si scoprono soltanto in Nepal» aveva affermato un amico reduce dal Giro dell’Annapurna. Per capire quanto avesse ragione basta dare uno sguardo alla Storia.

L’invenzione del trekking

A “inventare” le lunghe marce ai piedi dell’Himalaya, più o meno sessant’anni fa, fu un inglese. Si chiamava James Roberts, è passato alla storia come Jimmy. Era un tenente colonnello dei Gurkha. Nel 1950, insieme al grande alpinista Harold William “Bill” Tilman, Roberts fu invitato a far parte di una spedizione all’Annapurna. Fuori da Kathmandu non esistevano strade, i punti di appoggio erano rari e poco adatti ad accogliere stranieri. Per spostarsi di villaggio in villaggio, e da una valle all’altra, era necessario allestire una carovana con guide, portatori e cuochi. C’era bisogno di tende, materassini, cibo, pentole, fornelli. Grazie alla sua esperienza militare, e alla sua conoscenza della lingua nepali, Roberts fu un organizzatore perfetto. Lo fece di nuovo, negli anni successivi, per le spedizioni britanniche e americane dirette all’Everest e ad altre grandi cime. Poi cambiò vita: lasciò la divisa e diventò imprenditore, continuando a organizzare carovane, ma non solo per gli alpinisti.

L’intuizione di Roberts fu elementare e geniale. Per apprezzare i percorsi di avvicinamento ai campi base e i panorami sui giganti di ghiaccio non c’era bisogno di ambire alle vette. Camminare in Nepal poteva essere un prodotto turistico a sé, come un safari in Tanzania o una settimana di immersioni alle Maldive. L’ex ufficiale dei Gurkha iniziò a proporre i suoi itinerari agli amici degli amici, poi alle associazioni di escursionisti. Ebbe successo, diede un esempio a molti altri. Tra i primi a seguirlo ci fu il torinese Beppe Tenti, che tra gli accompagnatori per i suoi gruppi arruolò il giovane Reinhold Messner. Negli anni Settanta, sui sentieri dell’Annapurna e dell’Everest presero a scarpinare americani e inglesi, francesi e italiani, giapponesi e tedeschi. Ma lo stile, formale e molto british, era ancora quello voluto da Jimmy, che come marchio per i suoi prodotti aveva intanto scelto una parola boera: trekking.

Il trekking oggi

Da allora è passata molta acqua sotto i ponti e sugli itinerari nepalesi hanno marciato milioni di trekkers. Lungo le vie più battute, alcuni imprenditori locali hanno aperto rifugi-albergo dove mangiare e dormire: i lodge. Grazie a loro è diventato possibile camminare senza far parte di una carovana, arruolando solo una guida e uno o due portatori. Il trekking è diventato meno costoso e i numeri sono cresciuti ancora. Secondo gli ultimi dati ufficiali, sui sentieri dell’Everest si spingono oltre 30mila camminatori ogni anno, su quelli dell’Annapurna più del triplo. Cifre modeste rispetto alle vacanze balneari italiane o alle settimane bianche nelle Alpi. Ma significative per un Paese povero come il Nepal.

È stato calcolato che ogni trekker – tra guide, albergatori, portatori e altri impieghi – dà lavoro a 5-10 persone. E il trekking porta uno sviluppo diffuso. Nei safari in Africa, per esempio, il grosso dei profitti va alle compagnie proprietarie dei fuoristrada e degli alberghi, mentre alla gente del posto restano solo le briciole. In Nepal, anche grazie a etnie di straordinari imprenditori come gli Sherpa, il reddito resta quasi tutto in loco. Nel corso del tempo, tuttavia, non sono mancati i problemi. L’afflusso di trekkers è calato negli anni degli scontri tra l’esercito di Kathmandu e la guerriglia maoista. Nel 2006 è tornata la pace, ma il terremoto del 2015 ha di nuovo spaventato i camminatori. In qualche zona, come la Valle del Kali Gandaki, la costruzione di nuove strade ha fatto evaporare i salari dei portatori.

Una cosa su di loro va detta, dato che a volte gli stranieri si sentono in colpa nel vedere i bagagli trasportati in quel modo. Preoccuparsi è giusto, ovviamente, ma in un mondo contadino, dove la fatica nei campi è normale, portare dei carichi per qualche ora al giorno non significa diventare schiavi. Negli anni, anche grazie al lavoro delle ong, le condizioni contrattuali degli sherpa sono decisamente migliorate. C’è chi fa quel lavoro per pagarsi l’università a Kathmandu o per mettere da parte un gruzzolo da investire in un bar cittadino o in un lodge.

Un business diventato locale

Il Nepal, come tutta l’Asia, cambia a una velocità sorprendente. L’industria del trekking, come quella delle spedizioni alpinistiche commerciali, è nata come business straniero, ma oggi è nelle mani di imprenditori locali. Tra i loro clienti, accanto a nordamericani ed europei, sono sempre più numerosi gli asiatici: indiani, cinesi di Pechino, di Singapore, di Taiwan, thailandesi e malesi, nepalesi di città… Ed è un passo avanti importante.

Kathmandu, da piccola Shangri-La romantica, è diventata una città complicata e inquinata. Ma il fascino delle montagne, delle valli e dei villaggi è rimasto. Sui cataloghi delle agenzie specializzate, e nei programmi delle guide alpine e delle associazioni di casa nostra, le proposte abbondano. Quanti sanno l’inglese, hanno esperienza di viaggi e sanno leggere le recensioni giuste sul web, possono contattare direttamente gli operatori nepalesi. Poi bisogna scegliere l’itinerario giusto. Chi conosce il Monte Bianco e le Tre Cime ha voglia di vedere l’Everest, chi si appassiona davanti agli eremi e ai castelli delle nostre montagne può preferire i borghi e i monasteri del Mustang. Va tenuto conto del proprio allenamento e della stagione, perché camminare con il monsone è faticoso. Sugli itinerari più battuti si può andare in pochi o da soli, da un lodge all’altro, magari arruolando un porter guide, un ragazzo che parla l’inglese e sa svolgere i due ruoli. In zone più remote, come i trek verso il lago Rara o il Kangchenjunga, i lodge sono rari e una piccola carovana ci vuole. Qui, per abbattere i costi, è bene essere in parecchi. Se si dorme in tenda, all’alba può fare un bel freddo. Ma capita ancora che una mano, dopo aver aperto la cerniera, porga al trekker intirizzito una tazza di tè o di caffè bollente.

 

Altri approfondimenti sul numero 253 di Meridiani “Nepal”.

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