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Appennino ghiacciato, si può fermare la strage?

Continuano i giorni di dolore e di lutto, nell’Appennino e in Abruzzo, dopo gli incidenti dei giorni di Natale e Santo Stefano, che sono costati la vita a tre alpinisti sul Gran Sasso, e quello del 27 dicembre sul Terminillo.

Ryszard Barone, 25 anni e Andrea Antonucci, 28 anni, di Corfinio nei pressi di Sulmona, avevano passato la notte tra Natale e Santo Stefano, insieme a due amici, nel ricovero invernale del rifugio Franchetti. I quattro alpinisti erano diretti alla Vetta Orientale del Corno Grande per la ferrata Ricci, che d’inverno si trasforma in una ripida rampa di neve. Prima di raggiungerla, traversando il canalone tra il rifugio dall’attacco, sono stati traditi da una lastra di neve ventata, appoggiata al pendio. I tecnici e l’elicottero del Soccorso Alpino li hanno recuperati 500 metri più in basso.  

Qualche ora prima era stato recuperato il corpo di Franca Di Donato, 48 anni, di Isola del Gran Sasso. Partita la mattina di Natale dal Piano del Laghetto, era salita verso il Vallone delle Cornacchie, il Franchetti e la Sella dei Due Corni. Da lì, per cause imprecisate, è caduta verso il Vallone dei Ginepri. 

L’ultimo incidente mortale, il 27 dicembre, è avvenuto nel Canalone centrale del Terminillo. Un itinerario con pendenze di 35-40 gradi, che è la via normale invernale della montagna, e che in buone condizioni si percorre facilmente in salita e in discesa. Davide Pizzolato, alpinista veneto di 46 anni, è scivolato sul pendio, ed è morto urtando i blocchi di roccia scoperti alla base.  

I numeri, ormai, sono quelli di una strage. Otto morti in meno di un mese, quattro tra Natale, Santo Stefano e il 27 dicembre. L’Abruzzo e le regioni vicine, per i giornali e le tv di tutto il mondo, stanno diventando la terra delle montagne assassine. Per capire se e come è possibile evitare altre tragedie c’è bisogno di una riflessione approfondita. 

Alcuni elementi del problema sono gli stessi ogni anno. Il periodo più pericoloso, sull’intero Appennino, è quello tra l’autunno e l’inverno, quando la neve scarseggia e al suo posto abbonda il ghiaccio. In queste condizioni i pendii, a vederli dal basso, sembrano ancora erbosi. Quando ci si mette piede, invece, si scopre che accanto all’erba c‘è il ghiaccio. 

Di solito, a dicembre, s’incontrano condizioni pericolose in tutti i massicci principali dell’Appennino, dai Sibillini che si alzano tra l’Umbria e le Marche fino al Terminillo nel Lazio, e a montagne interamente abruzzesi come il Velino e il Sirente. 

Negli ultimi giorni, queste condizioni sono state segnalate più volte sulle vette del Velino e nei canaloni del Terminillo, dove prima di Natale il Soccorso Alpino del Lazio ha recuperato due alpinisti in difficoltà. A causa del caldo, quest’anno, il ghiaccio compare solo oltre i 1800-2000 metri di quota, e il rischio si concentra sui due massicci più alti. Il Gran Sasso e la Majella non avevano mai fatto tante vittime. 

I forti venti di garbino dei giorni scorsi, insieme alla pioggia che è caduta anche a quote di 2100-2200 metri, hanno letteralmente vetrificato tutti i pendii, anche quelli dove non c’è manto nevoso. Sono frequenti le placche ventate, poggianti su neve ghiacciata o ghiaccio vivo. E’ necessaria la massima attenzione” spiega Marco Iovenitti, guida alpina dell’Aquila, sulla sua pagina Facebook. 

Di solito, nelle prime settimane dell’inverno, a rischiare sono gli escursionisti impreparati, che affrontano pendii gelati con ai piedi le ciaspole, e a volte non conoscono proprio l’esistenza dei ramponi e della piccozza, gli attrezzi fondamentali per muoversi in sicurezza d’inverno. Quest’anno invece, dato che il ghiaccio si concentra sui massicci più alti, molte vittime sono degli alpinisti preparati. 

Tutti questi morti sono insopportabili, bisogna fare qualcosa” confessa Daniele Perilli, responsabile del Soccorso Alpino abruzzese. “Finora la Regione Abruzzo non è stata attenta a questo tema, ma la sicurezza in montagna deve diventare una questione importante”.

Esiste un problema di fondi, dato che in Abruzzo il Soccorso (elicottero escluso) riceve 105.000 euro dalla Regione ogni anno contro i 700.000 dell’Emilia-Romagna” prosegue Perilli. “Ma non basta. Dobbiamo essere presenti nei media, entrare nelle case, informare chi viene a camminare o ad arrampicare da fuori, prima di tutto da Roma”.   

Sulle Alpi, dal versante francese del Monte Bianco al massiccio lombardo delle Grigne, dei “filtri” di guide alpine e soccorritori fermano da anni chi non ha l’attrezzatura necessaria. Un sistema che a Campo Imperatore, alla Majelletta, ai Prati di Tivo, alla base Terminillo e a Forca di Presta sui Sibillini potrebbe funzionare. Un’altra possibilità, più banale, sono dei tabelloni pubblicitari vistosi, da piazzare negli autogrill e alla base delle montagne e dei sentieri, simili a quelli usati in Alto Adige e in Trentino per invitare i motociclisti alla prudenza. 

Forse tutto questo può servire, ma non può essere sufficiente. Bisogna mobilitare il CAI, le guide alpine e i Parchi, bisogna controllare che gli accompagnatori di media montagna e le guide ambientali facciano il loro mestiere sui sentieri, senza spingersi oltre” aggiunge Daniele Perilli.

A Roma, e in montagna lo si vede facilmente, esistono associazioni che organizzano uscite invernali su terreno alpinistico senza avere i titoli per farlo. Nel Lazio, la Regione deve riconoscere l’esistenza delle guide, ratificando dopo più di 30 anni la legge nazionale e consentendo la nascita del Collegio professionale.

A rischiare, i questi giorni, è anche chi possiede l’attrezzatura corretta, ma non la sa utilizzare abbastanza bene. “Un pendio di buona neve a 40° è facile, uno scivolo di ghiaccio della stessa pendenza può essere mortale per chiunque. Anche una guida in cordata con un cliente deve fare la massima attenzione” aggiunge Giampiero Di Federico, la più nota guida alpina dell’Abruzzo. Per frequentare le vette dell’Appennino in questi giorni ci vogliono i ramponi, la piccozza e la capacità di guardarsi allo specchio

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