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Sciare su un 8000: tecnica, coraggio e attrezzatura al top. Intervista a Cala Cimenti

Testo di Carlo Brena

Un soprannome che è diventato un marchio di fabbrica per imprese ad alta quota. Carlalberto Cimenti, più noto nell’ambiente come “Cala”, 44 anni, torinese, è un alpinista di talento che ama unire la sua grande passione per la montagna con quella per lo sci estremo, tanto da essere stato insignito nel 2015 dell’onorificenza Snow Leopard per aver completato l’ascesa di tutti e cinque i “settemila” delle catene montuose del Pamir e del Tien Shan – un tempo parte del territorio sovietico – discendendole con gli sci.

Lo scorso luglio, insieme ai due russi compagni di spedizione Vitaly Lazo e Anton Pugovkin, ha compiuto un’impresa ancora più eclatante raggiungendo la vetta del Nanga Parbat, che con i suoi 8.126 metri è la nona montagna più alta al mondo. Nonostante la sinistra fama di “montagna killer” che accompagna questa vetta, Cala Cimenti l’ha discesa con gli sci ai piedi.

Lo incontriamo a distanza di qualche mese, quando il ricordo emotivo sta lasciando spazio alla narrazione anche più tecnica.

 

Partiamo dall’impresa del Nanga Parbat. Quali sono i ricordi più vividi che hai di quelle giornate?

“Direi tre. La prima sciata durante le fasi di acclimatamento: la neve non era granché ma l’emozione di sciare per la prima volta sul Nanga Parbat è stata fortissima. Poi alcuni momenti intensi in tenda con compagni e, ovviamente, il momento in cui sono arrivato in cima”.

Com’è nata la decisione di affrontare, oltretutto con gli sci, una montagna complicata come il Nanga Parbat?

“Nel mondo alpinistico il Nanga Parbat è un mito assoluto, tutti sognano di andarci prima o poi. Tempo fa, di rientro da un’altra spedizione, l’avevo sorvolata ed ero rimasto colpito dalla sua imponenza: è un massiccio enorme! Volavo e mi ripromettevo di scalarla. E alla prima opportunità ho mantenuto la promessa”.

È stata più dura la salita o la discesa?

“La salita. In discesa, ero più nel mio elemento, anche se nella prima parte ho perso tempo per togliere con un coltello uno zoccolo di neve e ghiaccio che si era formato sotto gli sci. Per scendere di mille metri ci sono volute sei ore e sono rientrato a campo 4 verso mezzanotte”.

Durante una spedizione il rapporto con i compagni è fondamentale. Che tipo di dinamiche si creano?

“Quando tutto va bene in alta quota si sviluppano velocemente delle belle amicizie, profonde e durature, dato che si condividono emozioni fortissime, ci si affida uno all’altro e si è sempre a contatto con la morte. Ma vale anche il contrario: se si litiga lì, è finita”.

Parliamo di materiali, in particolare un attrezzo che deve servire sia per salire che per scendere: gli scarponi.

“Ho utilizzato gli Hoji Pro Tour di Dynafit, e hanno risposto molto bene alle mie esigenze, per diverse ragioni. Innanzitutto per la calzata: a quelle quote indossare uno scarpone mentre sei sdraiato in tenda rischia di essere un problema, mentre il fit degli Hoji è fantastico. E poi la sciata, una volta trovata la giusta regolazione, sono scarponi molto performanti e precisi. Infine, eccellente sotto il profilo della termicità, e si sa che a quelle quote…”.

Più in generale quanto conta l’evoluzione dei materiali in imprese come queste?

“Tantissimo. In termini di protezione e leggerezza non c’è paragone rispetto a come si scalava anche solo vent’anni fa. A quell’altitudine cinque/sei chili di peso in meno tra piccozza, ramponi e tenda, fanno una differenza enorme. L’importante è che tanta leggerezza non vada a discapito dell’affidabilità”.

Hai un percorso sportivo piuttosto articolato: da ragazzino, ad esempio, praticavi ciclismo.

“Vero. Poi, al momento di fare il salto di categoria, (e quindi di allenarmi molto di più!), sono passato alla mountain bike, poi alla corsa in montagna. Sulla neve e a scalare vado fin da quando avevo cinque anni, a 12 sono stato sul Bianco con mio padre. Ho sempre sciato, dallo sci di fondo al freeride, anche se non sono un pistaiolo: per me, da sempre, sciare significa andare con le pelli in neve fresca”.

Come ti prepari dal punto di vista fisico per affrontare le tue imprese?

“Prediligo gli sport aerobici: d’estate corsa in montagna, trail running, bicicletta. Con la stagione invernale tanto scialpinismo e arrampicata sulle cascate di ghiaccio”.

E la testa? Alla paura, ad esempio, ci si abitua?

“In generale, sì. Me ne rendo conto a inizio stagione quando la paura del vuoto alle prime uscite si riaffaccia e poi, dopo un po’, passa. Certo, bisogna anche essere predisposti. Parecchio”.

Si dice che l’alpinismo e la montagna siano maestri di vita. A te cos’hanno insegnato?

“A vedere le cose da diversi punti di vista. E a essere onesto con me stesso, perché a barare, in montagna, c’è il rischio di non tornare a casa”.

C’è un alpinista a cui senti di ispirarti?

“Uno che ho ammirato è stato Ueli Steck, ma fin da bambino sognavo di essere Anatolij Boukreev”.

Chiusa un’impresa, si pensa a un’altra.

“Sì, ma sapete che le imprese si raccontano dopo, e non si annunciano prima. Diciamo che ho in mano un biglietto aereo per l’India”.

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