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Daniele Nardi e lo Sperone Mummery, 117 anni dopo

Da qualche parte lungo l’impressionante bastionata dello sperone Mummery c’è una bottiglietta con un biglietto. “Alone, in winter, is not possible, by fair means, thanks to have inspired me. D.N” – Da solo, in inverno, non è possibile, con mezzi leali, grazie per avermi ispirato. D.N. – recita il testo lasciato da Daniele Nardi quando per l’ultima volta, prima di quest’inverno, lo scalatore laziale ha deciso di misurarsi con il fantasma di Albert Frederick Mummery. Rimarrà là, scossa da vento e valanghe a ricordare chi, 117 anni dopo l’alpinista inglese, scelse di tornare sulla prima prima via dell’Himalaya.

Albert Mummery, precursore dell’alpinismo moderno, scalatore senza mezzi artificiali e profondo sostenitore dell’alpinismo senza guide, fu il primo a vedere in quello sperone una possibile via di accesso alla montagna. Nel 1895, trent’anni prima che venisse il tempo degli Ottomila, Mummery si mosse verso la base della parete Rupal con una spedizione ridotta al minimo, appena 6 uomini, e dopo averla esplorata senza però trovare un varco per la vetta (la parete verrà violata per la prima volta nel 1970 dai fratelli Messner), scelse di spostarsi sul versante Diamir. Eccolo lì allora lo sperone, fu amore a prima vista per lui come per Daniele.

Mummery fu davvero un visionario con una grande esperienza alpinistica e con quell’intuito che gli permise di avvicinarsi a un gigante come il Nanga Parbat, seppur senza alcuna conoscenza d’altissima quota e senza nessuna nozione di fisiologia umana. I primi studi sulla necessità del corpo di acclimatarsi all’alta quota saranno realizzati solo trent’anni dopo. Pagò le conseguenze di tutto questo Albert Mummery, anche se probabilmente non finì la sua esistenza su quello sperone, ma da qualche altra parte nel tentativo di andare verso la parete Rakhiot, che poi nel 1953 vedrà passare il primo salitore del Nanga Parbat Hermann Buhl.

 

Daniele ha trascorso più inverni sotto la parete Diamir con l’ambizione di completare quella via, sempre con compagni diversi. Prima con Elisabeth Revol, una volta con Tomek Mackiewicz e poi con Roberto Delle Monache. Con nessuno è più tornato su, nessuno forse credeva quanto lui in questo progetto, almeno fino all’incontro con Tom Ballard. Mai oltre i 6400 metri circa, li raggiunse con Elisabeth, prima di cimentarsi in un tentativo solitario. Prima di scegliere di unirsi alla spedizione di Alex Txikon e salire lungo la Kinshofer nel febbraio 2015.

Era commosso dall’emozione Daniele quando, dal plateau sommitale, ha potuto osservare l’uscita del Mummery. Era quasi fatta, mancava poco perché lui, Alex e Alì potessero raggiungere per primi la vetta invernale. Certo, non era la via sognata, ma era pur sempre il Nanga Parbat invernale poi, “il senso di responsabilità ha prevalso su ogni cosa”. Si perché Alì Sadpara, quando il gruppo era ad un soffio dal mito, ha iniziato a mostrare i sintomi di un edema cerebrale così, raggiunta una quota di 7830 metri, i tre decisero di tornare indietro. “Non era pensabile lasciare Alì da solo nella discesa con le difficoltà che aveva in quel momento”.

La vetta del Nanga Parbat al tramonto. Ben evidente, al centro della foto, lo sperone Mummery. Foto Daniele Nardi Facebook

Se c’è una persona che conosce lo sperone Mummery e le sue difficoltà questo è Daniele Nardi. In questi giorni in cui giornali e tv riportano notazioni e pareri di alpinisti ed ex alpinisti riguardo la pericolosità di quel costone roccioso diretto alla vetta, forse sarebbe più opportuno ricordare meriti mai riconosciuti e lasciati passare inosservati. Dopo Albert Mummery più nessuno ha tentato quella via, solo Nardi ha cercato di salirla più volte. Non era però un’ossessione, era ricerca di un sogno, era voglia di pennellare con piccozza e ramponi una nuova via, la più affascinante per Daniele, sulla regina delle montagne.

La scelta della stagione invernale non è casuale, d’estate sarebbe stato un vero suicidio. L’inverno invece, con le sue rigide temperature offre una scalata più sicura anche se le finestre di bel tempo sono più corte. Il rischio però, lo sappiamo tutti noi amanti della montagna, si può limitare ma non cancellare. C’è sempre quella porzione di imponderabile, un rischio calcolato a cui non si può trovar rimedio. Reinhold Messner ha più volte definito quella via “impossibile e suicida”, una definizione comprensibile pensando a cosa l’alpinista altoatesino si è trovato a vivere lungo quel tracciato, da lui scelto in discesa con suo fratello Günther per la facilità tecnica. Lo stesso alpinista ha però spesso affermato che l’impossibile è solo qualcosa che non è ancora stato fatto e che ci sarà sempre un impossibile “da qualche altra parte […]. Dove ci sono anche i pericoli, che fanno aumentare la nostra paura, perché nessuno vuole morire lassù” (da intervista ad Avvenire).

Sullo sperone Nardi ha toccato i 6400 metri e, prima, in solitaria i 6200 dove ora sbatte silenziosamente sulla roccia la bottiglietta con il messaggio di Daniele. Non riesce ad arrivare fino a noi quel rumore sordo e lontano, quel ringraziamento per aver reso il suo un alpinismo di ricerca. Non era una sfida con gli altri, quanto con se stessi. Forse non era nemmeno una sfida, era voglia di misurarsi con un’idea. Così nascono i sogni.

 

“Per un attimo mi sembra di aver afferrato la storia. Mi sembra quasi di vedere Albert Frederick Mummery mentre, nell’estate del 1895, cerca di risalire pendii molto più ricchi di neve con un’attrezzatura che oggi ci sembrerebbe preistorica. Lo vedo qui sopra con il suo giacchetto in tweed e gli scarponi di pelle chiodata, che cerca con i suoi gurkha di risalire pendii mai sfiorati prima da nessuno. Lo sento credere al suo sogno per poi cedere alle evidenze. Lo immagino qui accanto, mentre deve fare i conti con il proprio desiderio di salire, con l’agosto che volge alla fine, con i gurkha che iniziano a chiedergli fino a che punto volesse spingere questa folle idea. Con ben cinquantotto anni di anticipo rispetto alla prima scalata di una montagna di 8000 metri A. F. Mummery sfidava cocciutamente un gigante dal nome Nanga Parbat”. (Daniele Nardi con Dario Ricci – In vetta al mondo)

 

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