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L’Italia dei viadotti fragili, intervista a Giancarlo Scoccia – di Stefano Ardito

L’Italia è un paese di viadotti fragili. Una realtà conosciuta dai tecnici, ma che è diventata drammaticamente evidente il 14 agosto, quando il crollo del Ponte Morandi, a Genova, ha ucciso 43 persone, ne ha costretto altre 600 ad abbandonare le proprie case, e ha spezzato in duei la città.

Da allora, mentre l’inchiesta sule cause del crollo va avanti, e si avvia l’iter per la demolizione di ciò che resta del vecchio ponte e la costruzione del nuovo, il problema delle condizioni dei viadotti è stato affrontato all’italiana, tra momenti di panico e disinteresse. 

A ottobre Danilo Toninelli, Ministro per le Infrastrutture e i Trasporti, ha ispezionato alcuni viadotti della A24 e della A25, la Roma-Teramo e la Roma-Pescara, e li ha definiti “in condizioni allarmanti”. Poi ha annunciato delle limitazioni al traffico, che però non sono entrate in vigore. 

Il 16 gennaio la Procura della Repubblica di Arezzo, a seguito di una perizia, ha chiuso al traffico il viadotto Puleto, sulla E45 Perugia-Cesena, mandando nel caos la circolazione tra Umbria, Toscana e Romagna. Nei giorni successivi, dei servizi di Sky TG24 hanno indicato come pericoloso il viadotto Salinello della A14 Adriatica. 

In che condizioni sono i viadotti italiani, in montagna e non solo? Ci aiuta a capirne di più Giancarlo Scoccia, professore e ingegnere abruzzese che ha insegnato per decenni Tecnologia dei materiali e chimica applicata all’Università dell’Aquila.  

Giancarlo Scoccia

 

Professore, ma quanto deve durare un viadotto?

Nelle gare di appalto di oggi, per tutte le infrastrutture, è indicata una durata minima. In passato questo dato non c’era. Parliamo di almeno 50 anni.

Non è un periodo troppo breve?

Ma io parlo di 50 anni con la sola manutenzione ordinaria! Oltre quel periodo ci vogliono degli interventi straordinari, ma se questi vengono fatti bene non c’è limite. Teoricamente, un’opera può durare all’infinito.  

Perché è crollato il Ponte Morandi?

Per il viadotto di Genova l’ingegner Morandi ha scelto una soluzione diversa dal resto dei viadotti italiani, quella degli “stralli” in calcestruzzo. Una soluzione estremamente avanzata, una scommessa, che avrebbe richiesto un controllo continuo. 

Parliamo dei viadotti ordinari. In Italia, tra le autostrade e le altre strade ce ne sono centinaia se non migliaia. La maggioranza è stata costruita tra gli anni Sessanta e Ottanta, e ha compiuto o sta per compiere i fatidici 50 anni. E’ giusto suonare un allarme generalizzato? 

Per rispondere, devo spiegare cos’è il calcestruzzo. Si tratta di un materiale composito, fatto di un’armatura di ferro (in realtà acciaio) e da cemento, che viene utilizzato da circa un secolo. Gli ingegneri e le aziende italiane sono stati dei maestri nel suo utilizzo. 

Il calcestruzzo è sempre lo stesso da cent’anni?

Ovviamente no, e il salto di qualità più importante si è verificato negli ultimi 40/50 anni, dopo la costruzione di gran parte dei viadotti italiani. Esistono circa 150 tipi di calcestruzzo, ma per tutti i problemi sono legati alla porosità. L’acqua si infiltra nel cemento, porta con sé gli inquinanti ambientali (smog cittadino o industriale, scarichi di auto e camion, salsedine marina…) e fa arrugginire il ferro. 

E’ un fenomeno che si può controllare?

Il calcestruzzo di oggi è molto migliore di quello del passato. Si utilizza esclusivamente cemento in sacchi, e a seconda dell’opera si sceglie quello più adatto. Esiste il cemento autocompattante. Esistono degli additivi, fluidificanti che consentono di farlo scorrere bene, in modo da non creare delle cavità pericolose. 

Cosa succedeva in passato? 

Qualche decennio fa, per preparare il cemento, si prendevano gli inerti dove capitava, nei pressi dei cantieri. Per far scorrere meglio l’impasto, si aggiungeva troppa acqua, creando una porosità enorme nel calcestruzzo. Molte operazioni erano eseguite da maestranze non qualificate. E c’erano molti errori di progettazione. Secondo un’indagine che ha preso in esame oltre 10.000 opere, il 90% dei problemi deriva da questi errori.  

L’Autostrada del Sole è stata inaugurata nel 1964, la Salerno-Reggio Calabria dieci anni dopo. Hanno risentito di questi errori?

Certamente sì. Sul tratto Firenze-Bologna, dove erano stati utilizzati inerti inadatti, spesso di natura gessosa, molti viadotti sono stati rifatti ex-novo fin dagli anni Ottanta. Qualcosa del genere è accaduto lungo più a sud, tra Basilicata e Calabria. 

Viadotto della A24 Roma-Teramo a Casale San Nicola

Su molti viadotti della A24 e della A25, che lei da abruzzese conosce bene, il cemento dei viadotti è scrostato, ed è venuta alla luce l’armatura. C’è pericolo?

Se il fenomeno è limitato alla superficie è un segnale di allarme, ma non è ancora un pericolo. C’è bisogno di controlli, e dove non si riesce a vedere si possono usare carotaggi o ultrasuoni. Poi si può ripristinare il rivestimento in calcestruzzo, e ci sono delle vernici che rialcalizzano il ferro dell’armatura. Se c’è interesse si può recuperare tutto. 

Lo si sta facendo?

Sulla A24 e sulla A25, nei recenti lavori per l’adeguamento sismico dei viadotti, si è iniziato a farlo. E’ un lavoro che deve proseguire, e non solo in Abruzzo.     

Ha altre indicazioni per il futuro?

Come le ho detto, la progettazione delle opere pubbliche è molto migliorata. Ma la legge ancora non prevede che, accanto ad altri specialisti, debba essere incluso un ingegnere esperto di materiali. Lo ha raccomandato l’AIMAT, l’Associazione Italiana di Ingegneria dei Materiali, in un incontro che ho organizzato all’Università dell’Aquila in autunno. 

 

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