Paolo Petrignani, un fotografo ai piedi del K2
Romano classe 1963 ha girato il mondo con la fotocamera al collo per raccontare luoghi, ambienti, territori, persone, spedizioni scientifiche e molto altro. Con la sua professionalità, Paolo Petrignani, racconta il mondo per immagini riuscendo a trasmettere le sensazioni e le emozioni del momento. Lo sa fare splendidamente attraverso il suo obiettivo e la cosa gli riesce in modo unico quando deve farlo in altissima quota, alle pendici del K2, dov’è stato nell’agosto 2016 con la guida di Alagna Michele Cucchi per seguire e documentare i lavori di pulizia della montagna.
Curiosi di scoprire l’esperienza di Paolo in Pakistan, tra quelle montagne che ci stanno tanto a cuore, l’abbiamo cercato per farci raccontare qualche aneddoto sulla spedizione. L’abbiamo trovato a Latina, dove vive, indaffarato con valige, borse e borsoni. “Tra pochi giorni torno in Pakistan, per documentare il Parco Nazionale del Karakorum e un ambizioso progetto di turismo eco-sostenibile”.
Ti sei proprio innamorato delle montagne pakistane…
Non solo, sono cresciuto stando tra le montagne pakistane.
Quando sono partito non sapevo a cosa sarei andato incontro. Nel complesso però è stata un’esperienza molto forte dal punto di vista umano, con accadimenti che mi han segnato nonostante l’età. Posso quasi dire di essere migliorato.
Cos’è successo durante la spedizione?
Ci sono stati momenti molto toccanti e istruttivi. Un momento molto particolare è stato ad esempio il recupero del corpo di Leonardo Comelli, un caro amico di Michele venuto a mancare pochi mesi prima sul Laila Peak. Quando siamo passati di fronte alla montagna durante il trek di rientro dal campo base del K2 Michele si è separato da noi per andare alla ricerca del corpo e dargli degna sepoltura.
Onestamente, non ero affatto preparato per affrontare una situazione del genere. L’alta montagna però è anche questo: per gli alpinisti è normale, hanno un rapporto molto più diretto con la morte.
Era la tua prima volta in Pakistan?
In Pakistan si e devo dire che mi ha fatto fin da subito una bella impressione. Si tratta di un Paese accogliente poi, ovviamente, andando con l’appoggio di EvK2CNR eravamo su un piano privilegiato.
A fianco di tutto questo devo dire anche che fare il trek con Michele Cucchi, guida di primo livello, mi ha aiutato a vivere l’esperienza sia umana che professionale in un modo unico. Michele mi ha aiutato in tutto quello che era possibile.
Hai avuto problemi durante il trek?
A un certo punto la mancanza di allenamento e acclimatazione mi ha dato qualche problema. Non mi hanno mai impedito di fare il mio lavoro, ma qualche difficoltà in più la si sentiva.
C’è da dire che quello del Baltoro era un terreno estraneo e poco compatibile con la mia esperienza. Io arrivo dal mondo della speleologia e sono socio del gruppo di esplorazioni geografiche La Venta. Con loro ha fatto quindici anni di esplorazioni speleologiche, anche su ghiacciaio. Abbiamo affrontato i ghiacci in Islanda, in Patagonia, in Antartide e sulle nostre Alpi. Non ero però mai stato su un ghiacciaio come quelli himalayani.
Era diverso anche a livello fotografico?
Nella fotografia cambia tutto. Grotta significa buio totale, illuminazione artificiale, treppiede. In montagna tutto questo non serve: ci sono luci, colori e sensazioni impressionanti. Un lavoro completamente diverso.
Sono molte le persone che ogni anno percorrono il Baltoro, cosa significa però viverlo da fotografo?
C’era tantissimo da fotografare. L’impressione che si ha è quella di essere in un territorio immenso. È difficile spiegare a parole la vastità e le dimensioni di quella natura, bisogna andarci per capirlo veramente. Puoi vedere delle foto, leggere le descrizioni su libri pieni di nomi esotici. Testi che richiamano verso questi luoghi mitici dal punto di vista alpinistico. Ma finché non tocchi con mano non può capire del tutto la grandiosità del Baltoro. È tutto così impressionante che spesso rimani senza fiato per la bellezza.
In tutto questo c’è poi da dire che quando si arriva al Circo Concordia si rimane letteralmente senza parole: è un impatto pazzesco. Da l’impressione di essere in un posto unico.
Per quale motivo ti sei avvicinato al K2?
Avevo ricevuto l’incarico di documentare il lavoro di pulizia del ghiacciaio e del campo base della montagna. Un lavoro lungo e complesso che mi ha aperto gli occhi su un altro mondo.
Avete trovato qualche oggetto particolare?
Ricordo una fotocamera e altri oggetti da spedizione.
La cosa più impressionante è stata però il ritrovamento di uno scarpone rosso. Stava lì piantato in verticale nel ghiaccio. Abbiamo provato a toglierlo, ma era incastrato. Così ci siamo messi a scalpellare intorno per cercare di sbloccare la scarpa che alla fine è venuta via rivelando il suo contenuto: un piede. Per me è stato un momento tragico, una cosa a cui non avrei mai pensato: un piede perfettamente conservato. Le altre tracce che abbiamo trovato erano diverse, erano scheletri, pezzi di colonna vertebrale, un bacino e qualche costola.