Storia dell'alpinismo

Sara Grippo, tornata alla libertà dopo la malattia: “L’arrampicata è stata la mia migliore medicina”

A volte scrivere una storia può essere difficile. A volte può capitare di trovarsi con le dita sulla tastiera a ricercare il modo migliore per narrare una vita, senza però sapere come farlo. Poi capita che l’intervistato, in questo caso Sara Grippo, inizi a raccontare in modo naturale, e senza troppe preclusioni mentali, una storia di vita che pare lunga un sogno. Una vita trascorsa nell’attesa di una chiamata, quella che l’avrebbe riconsegnata alla vita vera, libera, alla sua passione più grande: l’arrampicata.

Sara è una trentaquattrenne dalla folta chioma riccioluta originaria di Paesana, in Valle Po, dove ha vissuto fino ad un paio d’anni fa prima di trasferirsi ad Arco di Trento dove convive con il fidanzato Stefano Ghisolfi, climber torinese atleta del Gruppo Sportivo Fiamme Oro.

La vita della giovane piemontese è stata quella di una ragazza come le altre fino a 23 anni quando le è stata diagnosticata la Glomerulonefrite autoimmune. Una malattia infiammatoria che colpisce i glomeruli renali e che può portare alla distruzione di questi con il conseguente blocco della funzione renale.

Prima che si capisse di che malattia si trattava, essendo rara, sono passati diversi mesi. Ho frequentato vari ospedali per capire cosa mi stesse accadendo e nel frattempo la malattia si è aggravata sempre più. Ho girato finché a Torino sono riusciti a diagnosticarmi la Glomerulonefrite” spiega Sara. “Dopo sono dovuta rimanere due mesi ininterrotti in ospedale per cercare di arginare la patologia e dopo le dimissioni ho dovuto seguire una terapia che prevedeva qualcosa come sedici pastiglie al giorno”. Cure necessarie per tenere a bada la malattia che, purtroppo “è andata degenerando sempre più fino a portarmi alla dialisi nell’arco di cinque anni. I miei reni non funzionavano più”.

 

Com’è cambiata la tua vita dopo questa scoperta?

“È cambiata tantissimo perché a 23 anni hai altri pensieri, hai aspettative diverse, sei spensierato, non te l’aspetti. Poi, di colpo, hai a che fare con la vita, con la salute.

Io, poi, ero sempre stata bene, non ho mai avuto problemi di salute. Ho sempre condotto un’esistenza molto attenta, non ho mai fumato, non ho mai bevuto, però la malattia è arrivata lo stesso. E dopo una cosa del genere la percezione che hai della vita cambia radicalmente: apprezzi molto di più le cose, vivi ogni giorno con un approccio diverso”.

Cos’è stata per te l’arrampicata prima, durante e dopo la malattia?

“L’arrampicata per me era ed è una passione. Scalavo prima e ho continuato a scalare anche dopo, anzi, dopo ho iniziato a scalare ancora di più perché mi faceva star bene. Mi aiutava a staccare, a smettere di pensare. Per un attimo ero libera dalla malattia.

Ho scalato tantissimo nei cinque anni precedenti la dialisi, poi, con l’inizio dell’emodialisi mi han dovuto fare una fistola al braccio dicendomi che non avrei più potuto scalare perché ci sarebbero stati problemi. Io ho però voluto arrampicare lo stesso. Ho sempre scalato e alla fine l’arrampicata è stata la mia migliore medicina”.

Per un periodo ha proseguito la dialisi a casa, grazie all’aiuto del tuo compagno Stefano…

“Per anni non mi sono potuta allontanare da casa perché la dialisi non conosce vacanza, era il mio appuntamento fisso in ospedale: tre volte a settimana. Nonostante questo però siamo sempre riusciti a spostarci con il furgone in Italia. Posso quasi dire di aver fatto dialisi in tutta Italia.

Anche all’estero avrei potuto farla, ma sarebbe stato difficile, complesso e costoso. E poi non potevo allontanarmi troppo perché ero sempre in attesa della telefonata, quella per il trapianto, che poteva arrivare da un momento all’altro.

Non tutti i luoghi erano però irraggiungibili. La Spagna, ad esempio, poteva essere alla nostra portata perché in poche ore sarei potuta rientrare. Sarebbe stato un sogno poterci andare insieme a scalare. Così io e Stefano abbiamo voluto provare “I-Rene”(così chiamavo la macchina che usavamo per la dialisi a casa). Abbiamo fatto un corso di un mese in ospedale per imparare ad usarla e questo ci ha permesso di spostarci fino in Spagna a scalare, una cosa che non potevo fare da anni, un sogno.

Stefano in quel periodo è diventato il mio infermiere personale e questa cosa ci ha legati ancora di più. Siamo stati due volte in Spagna insieme e lui è anche riuscito a chiudere due 9b, due tiri importanti. Probabilmente ci sarebbe riuscito comunque, ma è stato diverso. È stato, per tutti e due, un modo per poter essere più liberi.

Non posso fare altro che ringraziarlo per tutto quello che ha fatto”.

Poi la telefonata…

“La aspettavo da cinque anni e mezzo. È una cosa che può arrivare in qualsiasi momento e non te l’aspetti perché dopo un po’ non ci pensi più, perché non puoi vivere pensando solo a quel momento, perché perdi la testa se ti ci fissi sopra

Per me è arrivata così, improvvisa alle cinque del mattino. Stavamo dormendo, poi ci siamo precipitati a Torino e ora sto bene. Sono due mesi che non faccio più la dialisi. La scorsa settimana mi han tolto anche l’ultimo stent che avevo nell’uretere e tra pochi mesi potrò tornare ad arrampicare.

Tutto questo lo devo alla donazione di organi. Lo devo a chi in un momento di grandissimo dolore ha scelto di sublimare questo scegliendo di fare del bene agli altri indistintamente da religione, credo, colore, razza”.

Oggi, domani?

“Chi lo sa. Già solo il fatto di potermi sentire libera è qualcosa di bellissimo. Ci sono pensieri che non facevo da cinque anni.

Non sono più legata ad una macchina e questa è una cosa bellissima. La dialisi era qualcosa di devastante. Quando la facevo non mi riprendevo fino alla sera, stavo bene una mezza giornata il giorno dopo e poi ricominciavo a sentirmi piena di acqua. Il weekend era il periodo peggiore, quando passava più tempo tra una seduta e l’altra. Non potevo bere più di tanto perché non facevo più la pipì, i miei reni non funzionavano e così tutti i liquidi rimanevano in circolo.

Non mi sembra quasi vero che da due mesi ormai non devo più farla. Ora posso bere, posso mangiare, non mi sento più devastata come mi sentivo prima. Il primo anno ero molto più in forma, negli ultimi mesi iniziavo a non poterne davvero più, ero stanca, devastata”.

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