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Altro che «zone depresse»: numeri e dati sulla reale situazione della montagna

É di pochi giorni fa la notizia della nascita di “Confindustria per la montagna, network tematico che ha visto la luce a Cortina d’Ampezzo il 23 marzo e che come obiettivo ha quello di «promuovere una visione non stereotipata delle terre alte e di stimolare progetti, provvedimenti e politiche pubbliche coerenti, a favore della crescita economica e sociale di queste aree».

Un’iniziativa importante, che solo il tempo saprà dirci quanto incisiva. Ma – a prescindere dalle contromisure che sempre di più la classe dirigente cerca di mettere in atto per rilanciare la montagna – come stanno effettivamente le terre alte? Come sta il territorio che occupa il 54% del suolo italiano, e che ospita 11 milioni di abitanti, cioè circa il 18% della popolazione nazionale? E soprattutto, il vivere ad un altitudine maggiore rispetto alla maggioranza della popolazione porta ancora con sé svantaggi e carenze di servizi pubblici e privati? Cioè, lo sviluppo di una comunità è ancora segnato dalla posizione geografica?

Ufficio postale chiuso in Val d’Aveto. Foto @ Libertà

A rispondere a questi quesiti è un’analisi del Corriere della Sera, secondo la quale ad incidere sullo sviluppo non sarebbe più la geografia e l’altitudine ma la diffusione e l’incisività delle politiche pubbliche e dell’imprenditoria privata sul territorio.

Vediamo infatti all’interno dei territori montani situazioni opposte, come quella tra Trentino Alto Adige e Appennino, con quest’ultimo che a differenza del primo continua a fare i conti con un continuo declino demografico.

Dal punto di vista dell’istruzione vediamo invece una certa parità tra la montagna ed il resto del paese, con circa il 30% di persone che hanno raggiunto un livello “basso”, esattamente come nel resto d’Italia. Anche tra le percentuali di laureati la cifra è simile, con un 8,3% nelle terre alte ed un 10,8% in pianura. Dati che smentiscono chi pensa ancora oggi che terre alte significhi emarginazione, soprattutto culturale.

Il fare impresa in montagna invece addirittura supera le percentuali nazionali, con 86,7 imprese ogni 1000 abitanti contro l’84,7 delle zone pianeggianti. Forse in alto dare vita ad un progetto può risultare più difficile, ma questo, come vediamo, sembra essere più un incentivo che un fattore di scoraggiamento per gli abitanti della montagna.

L’analisi del Corriere si chiude poi con un’interessante considerazione: abitare in montagna permette, nonostante le difficoltà, di avere uno stile di vita più in linea con la qualità che tutti noi oggi esigiamo. Un ambiente meno edificato, con una biodiversità inimmaginabile per la pianura, che molti abitanti delle terre basse sognano e possono toccare solo nei ritagli di tempo in cui fuggono dalle città.

Taglio del fieno sull’appennino. Foto @ Umcar

Questi sono valori che attribuiscono senza dubbio un vantaggio al fare impresa in montagna, che mixati all’autenticità e alla qualità dei prodotti di montagna, garantiscono l’emersione dalla marginalità dove finora le terre alte erano sempre state relegate, almeno nella testa di molti. Senza parlare poi degli strumenti digitali che potrebbero far sposare l’innovazione con la tradizione e dei sempre più numerosi laboratori dove si tentano nuovi modi di produrre e di abitare.

Questo sviluppo dovrà insomma da un lato coinvolgere lo Stato, migliorando energicamente la proposta di servizi pubblici oggi ancora troppo carente in interi territori della montagna italiana e dall’altro cercare di sviluppare l’imprenditoria senza danneggiare – neanche minimamente – le specificità naturali del territorio, d’altronde «lavorare lassù comporta un obiettivo in più: accanto al produrre ricchezza, quello di presidiare un patrimonio, che, per la sua unicità, appartiene a tutti». Un patrimonio che è la vera fonte di ricchezza – forse ancora non capita nella sua interezza – dell’imprenditoria delle terre alte.

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