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Sergio Martini: Il mio ricordo del K2? Montagna maestosa, ma spedizione per nulla piacevole

Schivo e riservato, Sergio Martini è il secondo italiano ad aver completato i quattordici 8000. Ad incuriosire è il fatto che la sua prima cima al di sopra degli Ottomila metri sia stata il K2. Montagna spesso temuta che l’alpinista trentino ha scalato passando per l’allora semisconosciuto versante nord.

 Il K2 è stato il primo 8000 che ho raggiunto, ma non è stata la prima montagna di 8000 metri che ho tentato di scalare. Ne avevo già tentati altri come il Dhaulagiri nel 1976 o l’Everest nel 1980. Il K2 è venuto grazie a queste prime due esperienze.”

Come mai?

Perché ero molto legato alle persone con cui ho fatto gli altri tentativi. Con il K2 ho continuato questa esperienza ad altissima quota. In particolare con Santon, già capospedizione all’Everest, poi capospedizione al K2 nell’83.

Che impressione ha avuto di quella via?

La prima volta in cui ho visto questa montagna è stata sulle fotografie di spedizioni passate. Foto di Desio principalmente. Foto da cui traspariva questa linea perfetta. Una salita diretta alla cima lungo il filo della cresta. Un percorso affascinante che si sviluppa da un versante poco conosciuto, soprattutto in quegli anni, dato che la zona era appena stata aperta agli stranieri.

Una via con solo un anno di vita, era stata salita giusto l’anno prima dai giapponesi.

È stato affascinante perché era tutto da scoprire, sia dal punto di vista logistico con l’organizzazione della spedizione che per quanto riguardava l’avvicinamento alla montagna.

Come ricorda la spedizione?

Dal mio punto di vista, per nulla piacevole. Rimanere oltre 4 mesi sotto la montagna ha influenzarto gli animi della squadra e ha minato i rapporti tra i suoi componenti. Eravamo una squadra numerosa e avremmo dovuto lavorare in team, ma così non è avvenuto. Molti non hanno lavorato, altri invece hanno fatto molto e ancora il gruppo che doveva essere di appoggio non lo è stato affatto.

A questo si aggiunge che, come spesso accade, chi non tocca la vetta rimane amareggiato. All’epoca eravamo tutti giovani e si sono venute quasi a creare delle fazioni all’interno del gruppo. Di certo non posso ricordare la spedizione per la grande armonia che regnava tra i componenti. Ho però il ricordo di un grande entusiasmo all’idea di cimentarmi sulla montagna.

Il K2 invece?

Qualcosa di grandioso. Da quel lato la montagna appare isolata e maestosa più che dal lato pakistano. Tutt’intorno non esistono cime che ne possano sminuire la grandiosità. Spettacolare con questo sperone che vien su da questo terreno desertico d’alta montagna.

Un momento della spedizione che le è rimasto particolarmente impresso?

Uno si, ma di certo non divertente. Era durante il trek di rientro. Ricordo che usavamo i cammelli. All’andata non c’erano stati problemi, era l’inizio della stagione calda e le valli erano transitabili senza problemi. Però, al ritorno, abbiamo trovato così tanta acqua nei fiumi che la paura è stata davvero tanta. Sono stati giorni lunghi, credo i momenti peggiori che non la salita stessa della montagna.

Più interessante e divertente è stato invece l’attraversamento dei villaggi in cui c’è stato grande coinvolgimento da parte di tutta la popolazione che ha vissuto come un evento eccezionale il passaggio di gruppi così numerosi.

Ora però tocca ai polacchi…

Conosco personalmente Wielicki e so che i polacchi storicamente sono stati sempre molto tenaci. È gente che non molla facilmente la presa di un progetto. Con Krzysztof ho anche uno stretto un profondo legame di amicizia che mi fa sperare tutto possa andare per il meglio e che possa riuscire nel suo obiettivo.

Sicuramente, quello del K2 invernale, è un impegno non da poco. So che ce la metteranno tutta per arrivare. Ovviamente però, al di la delle capacità umane, ci saranno le condizioni climatiche che si troveranno a dover affrontare.

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