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Carlo Alberto Pinelli, l’anima di roccia e ghiaccio di Mountain Wilderness

Dopo l’intervista ad Alessandro Gogna proseguiamo il viaggio a ricordo dei trent’anni di fondazione di Mountain Wilderness chiacchierando con Carlo Alberto Pinelli. Regista, alpinista, ambientalista Pinelli ha dedicato la sua vita alla montagna e continua a farlo anche oggi, superata la soglia degli ottant’anni.

Cos’ha portato alla nascita di Mountain Wilderness?

Negli anni ’80, ma anche prima, molti alpinisti e escursionisti hanno iniziato ad accorgersi del rischio che venisse meno l’autenticità dell’esperienza di incontro con le montagne. Si stava andando sempre più verso una dirompente deriva consumistica, con tutto ciò che essa portava.
Nel contempo ci eravamo convinti che i club alpini tradizionali non erano in grado di contrastare tale progressivo degrado. Serviva uno strumento nuovo. Uno strumento agile, determinato, pronto a tutto, refrattario a compromessi. Questo strumento venne identificato, durante il Convegno di Biella, nel 1987, in una nuova associazione: Mountain Wilderness.

Quale doveva essere il significato di quest’associazione per i soci fondatori?

La nuova associazione doveva presentarsi e agire come una specie di Greenpeace della montagna, ricorrendo senza timori, e dove sembrava necessario, anche a  iniziative eclatanti, provocatorie (ma non goliardiche!), in grado di veicolare messaggi, magari scomodi e controcorrente, ma precisi e difficilmente accantonabili. Infatti venimmo, per le nostre modalità d’intervento, identificati dai media come “i Greenpeaks”.

Crede che l’associazione sia rimasta fedele a questi punti?

Credo che in questi trent’anni Mountain Wilderness sia rimasta fedele a quel significato, sebbene lo abbia esteso ad ambiti non strettamente connessi con l’alta montagna, come i parchi nazionali o l’imbroglio delle pale eoliche.

La filosofia ambientalista di Mountain Wilderness si può conciliare con quelli che sono stati i grandi risultati dell’alpinismo?

Sarebbe ingiusto e anche sciocco condannare certi comportamenti del passato, derivati da situazioni sociali, ignoranza ecologica e carenti consapevolezze culturali frutto di momenti storici diversi. Oggi noi reputiamo ad esempio che l’utilizzazione delle bombole d’ossigeno per raggiungere le grandi vette himalayane dovrebbe essere considerata illecita e eticamente scorretta: una forma di doping. Però non condanniamo chi, negli anni cinquanta e sessanta ne ha fatto uso. Personalmente penso tuttavia che la prima ascensione all’Everest dovrebbe appartenere a chi per primo riuscì a raggiungere la vetta senza usare ossigeno e non a Hillary e Tenzing. Ma si tratta, ripeto, di un’opinione del tutto personale. L’atto di abbandonare in quota corde fisse, tende, rifiuti, dovrebbe inficiare alla radice il risultato sportivo raggiunto. Oggettivamente, sul piano etico, non ha giustificazioni.

Secondo lei cosa unisce la pratica alpinistica all’Ambientalismo?

Correggerei la domanda riformulandola con “potrebbe unire”. Perché l’identificazione tra alpinista e ambientalista resta tutt’altro che automatica. Spesso, anzi, essa è particolarmente carente nei “grandi” alpinisti che cedono alla tentazione di porre tra se stessi e lo spirito della montagna il filtro sterilizzante del proprio super-io. Su questo argomento ho meditato e scritto a lungo. E qui lo spazio sarebbe insufficiente.  Del resto già le tesi di Biella, testo fondante di Mountain Wilderness, lo dicono con chiarezza: “…E’ di importanza fondamentale maturare la piena consapevolezza delle innumerevoli connessioni che uniscono i valori ecologico-ambientali ai valori etici, estetici e comportamentali. Proprio in tali connessioni infatti si situa il senso dell’alpinismo come espressione di cultura” .

Parliamo di oggi. Cosa vede nell’attualità della montagna?

Ho più di ottant’anni e l’età mi ha costretto a rallentare il mio coinvolgimento diretto con l’avventura dell’alpinismo di roccia e ghiaccio che ha modellato una gran parte della mia vita e del mio carattere. Oggi però intuisco un notevole livello di confusione e temo la deriva ludico/superomistica di quell’avventura. Credo che l’alpinismo, per essere compreso veramente, abbia bisogno di maggiore umiltà e di rinuncia al protagonismo esasperato.

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