Alpinismo

Il mio Everest: la magia del Nepal

Testo e foto di Davide Chiesa, alpinista e scrittore, nato nella pianura piacentina, ma appassionato di montagna da sempre. Documentarista e film maker, appassionato di fotografia, amante dell’alpinismo classico sulle Alpi ed Appennini negli ultimi anni ha partecipato a varie spedizioni in Himalaya e nelle Ande (www.comunicamontagna.it)

Ritrovare corpo e energie più in basso, alla base della montagna, dove nascono gli Sherpa. Namasté è il saluto nepalese, ci si saluta tutti, anche se non ci si conosce.

Campo Base è una parola rassicurante per gli alpinisti. E’ la casa, quando ritorni dalla vita dura dei campi alti, sebbene quando una spedizione dura a lungo, quando occorre stare fermi, ad aspettare diventa difficile sopportare i disagi anche qui. Il corpo si logora a 5300 metri. Anche la mente soffre.

Mettersi  invece in cammino fa svanire i pensieri. Ripenso al trekking iniziale, di vari giorni. L’avvicinamento, come lo conosciamo sulle Alpi, è una forma di nervosa corsa per avvicinarci alle montagne nel tempo rubato al lavoro, alle ferie, alla famiglia. Una fuga nevrotica, per effettuare ascensioni sempre più rapide, da “mordi e fuggi”. Qui no.

Assaporare tutto ciò che vuol dire “Nepal”; parole come sapore, incanto, spiritualità, ospitalità, fede, mistero, brivido, primordiale… Le montagne dell’Himalaya offrono momenti unici nella vita di un alpinista. Il luogo è sacro. Gli Dei, qui, a volte pare proprio di sentirli.

Gli sherpa nascono in questo luogo. Fortissimi e nello stesso tempo cordiali e dolci. Il loro sorriso a volte aiuta tanto.

Avevo bisogno di questo dopo un mese di alta montagna: vivere intensamente questo luogo e tutto ciò che  contiene, togliermi dall’intontimento dato dall’ambizione e dall’impegno di preparare la vetta. Spogliarmi. 

Così scesi a valle a fine aprile, da solo, per  5 giorni, a Pamboche a 3900 metri, ospitato dall’amico sherpa Sonam, che scalò con me il Manaslu nel 2011. Lui abita in questo piccolo villaggio con la moglie e due figlie piccole. Mi vuole bene. Ne ho approfittato per allenarmi con le sole scarpette e respirare più ossigeno. Ho girato di corsa attorno all’Ama Dablam – un magnifico 6000 – sono riuscito a fotografare il Gipeto in volo, ho rivisto incredibilmente, per caso, vecchi amici di passaggio tra cui “Gnaro” Mondinelli.

Anche altri alpinisti illustri, tra cui Mario Vielmo e Ueli Steck, mi consigliavano di concedermi una piccola “vacanza di bassa  quota” e ritornare più in forze per il finale all’Everest. Lo faceva anche il compianto e fortissimo Anatoli Boukreev quando era al Tetto del Mondo.

Passai giorni molto belli con Sonam a caricare gli Yak per il lavoro di trasporto, stando con loro in cucina, giocando con le sue figlie, partecipando ad una lunga cerimonia religiosa, una “puja”, da unico occidentale; una straordinaria comunità, della quale sono stato ospite gradito. Mai mi sono sentito così vicino a loro, all’anima delle LORO montagne, di cui ne sono parte.

Dopo 5 giorni tornai su, il mio gruppo mi aspettava al Base, facendo tesoro di quest’armonia riconquistata.

Il giorno che partii per la vetta accesi con il fuoco, nell’altare del nostro accampamento, l’incenso datomi da Sonam; lui si sarebbe recato quel giorno stesso al loro Monastero a dire una preghiera “… for a good summit”, per me e per mia figlia.

Grazie Sonam, Namastè.

Nel prossimo ed ultimo racconto, vi parlerò del leggendario Colle Sud, un passo dalla vetta. 

 

I precedenti racconti: 

Il mio Everest: una premessa
Il mio Everest: Ueli

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