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Il mio Everest: una premessa

Testo e foto di Davide Chiesa, alpinista e scrittore, nato nella pianura piacentina, ma appassionato di montagna da sempre. Documentarista e film maker, appassionato di fotografia, amante dell’alpinismo classico sulle Alpi ed Appennini negli ultimi anni ha partecipato a varie spedizioni in Himalaya e nelle Ande (www.comunicamontagna.it)

Sono partito accettando i compromessi di una spedizione commerciale e dell’uso dell’ossigeno (tanti i big del passato che all’Everest non sono riusciti senza…), che consente anche a chi è “alpinista” nel vero senso della parola, e non “turista”, di togliersi la soddisfazione ed il sogno di raggiungere il Tetto del Mondo senza avere avuto nessun problema (se non la grande fatica).

Premesso questo, vi racconterò il mio Everest.

La fortuna ha voluto che quel giorno, il 20 maggio, io sia arrivato in vetta all’Everest con poco “traffico” (con me un altro italiano, Angelo Lobina – il primo sardo in vetta-, due indiani, un australiano e cinque sherpa del nostro gruppo oltre a solo altre 5/6 persone circa), dopo che il vento di jet stream aveva terminato la sua azione dopo 2 giorni in cui siamo stati bloccati a Colle Sud. Penso che era da tanti anni che nessun italiano raggiungeva la vetta dal versante nepalese.

Infine, per ora, una curiosa e simpatica (per me lo era stata un po’ meno) circostanza.

In genere per l’attacco di vetta ad Everest –che dura circa 4/5 giorni- si parte riposati da giorni. Causa un inconveniente nelle previsioni di salita, meteo e quant’altro, mi trovavo a Pamboche (3900 m) il 13 maggio, sceso di quota in 6 ore di cammino con Mario Vielmo e compagni (impegnati al Lhotse) per una pausa rigenerante in valle di qualche giorno; era la seconda volta: già ero sceso per 5 giorni alla fine di aprile (cosa che spiegherò per bene nel prossimo racconto, nda). Quello stesso giorno però vengo contattato telefonicamente dal Base per dirmi di rientrare perché il 14 notte saremmo partiti per il campo 2 e per la vetta. Mi sono così trovato con un solo giorno di tempo per rientrare al Base -altre 7/8 ore di cammino- per partire la notte stessa per il campo 2 a 6500 di quota. Riposo? Impossibile quindi… Un inconveniente che potrebbe costare la cima. Un rientro avventuroso aiutato da un cavallo dell’amico sherpa Sonam di Pamboche, per riposare un po’ le gambe già stanche, mi ha fatto risalire al Base e poi per la vetta già spremuto di fatica… però tutto è andato bene. Stavo bene e tutto sommato ero in forma.

Il 20 maggio alle ore 7,00 eravamo in cima, solo noi del nostro gruppo, riuscendo a sfruttare il momento di bonaccia del vento per realizzare foto e video che con altre condizioni sarebbero stati impossibili da effettuare e tornare senza problemi: la sera stessa con Angelo e Sam siamo arrivati al campo 2 mentre gli altri tre del nostro team sono rimasti al Colle Sud.

Nel prossimo racconto vi parlerò del mio vicino di tenda al campo base, Ueli Steck. 

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