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Moro, Lunger: arrivederci Kanche

Il Kanchenjunga è un osso duro. Non che quest’anno al suo campo base si siano affollati dei gran campioni per salirlo. C’erano soprattutto bravi sherpa equipaggiati con abbondanti dosi di ossigeno e una manciata di clienti più o meno bravi. 

Il Kanche li ha ricacciati tutti a casa in malo modo. Non hanno nemmeno messo il naso sul colletto della cresta terminale. 

Ma la sorpresa questa stagione c’era: come un rombante tuono dopo un fulmine che illumina il cielo e le creste tutte era arrivata poche settimane prima della partenza: Simone e Tamara, la coppia più bucolica dell’arco alpino, avrebbe tentato nientemeno che la traversata delle creste del Kanchenjunga in stile alpino e senza ossigeno, ovviamente. Alle quattro cime di ben oltre 8000 metri ci avevano anche aggiunto la salita, per prima, del più basso Kangbachen.

La memoria era andata subito al 1989 e ad un gruppone di orsi d’altitudine russi che avevano raccontato alla stampa montana internazionale di aver salito e disceso creste e vie del Kanchenjunga e di aver realizzato la traversata da est a ovest e ritorno di tutte le cime di 8000 metri percorrendo quasi quattordici chilometri. Un’impresa formidabile concettualmente e tecnicamente, ma realizzata con l’uso dell’ossigeno supplementare. Non molto ossigeno probabilmente: portarsi le bombole avanti e indietro, seppur con erogazione ridotta per farle durare, forse, era costato più fatica che vantaggio. Fatto sta che l’uso dell’ossigeno rimane lì, come un monolite o un monito a certificare un’eccezionale prestazione mutilata.

Il pensare di ripetere dopo tanti anni quell’evento alpinistico senza l’ossigeno implicava uno sforzo concettuale e di accettazione dell’impegno e del rischio eccezionale. Simone e Tamara, scesi dal Nanga salito in invernale, hanno supposto di avere la determinazione e la capacità di realizzare una delle imprese alpinistiche più importanti ancora da completare “by fair means”.

Siamo di fronte a un alpinista importante con quattro invernali in Himalaya sul proprio palmarès: 2005, Shisha Pangma, prima ascensione invernale con Piotr Morawski; 2009, Makalu, prima ascensione invernale con Denis Urubko; 2011, Gasherbrum II, prima ascensione invernale con Denis Urubko e Cory Richards; 2016, Nanga Parbat, prima ascensione invernale con Alex Txicon e Ali Sadpara. Compagni di cordata eccezionali, anche se sono stati recuperati un po’ rocambolescamente all’ultimo momento.

Ma torniamo al Kanche. Le probabilità di riuscita della cordata Moro/Lunger, rispetto al progetto illustrato (è il caso di dirlo visto l’uso creativo di disegni e fumetti per comunicare) erano veramente esigue per una cordata che vanta un alpinista bravo ma, per sua scelta (apprezzata), prudente e che difficilmente butta il cuore oltre l’ostacolo rischiando di brutto, pur avendone le capacità. Tamara poi è il classico secondo, certo in grado di stare davanti a battere pista, ma non su passaggi troppo impegnativi e su quella infinita cresta ce n’è più d’uno. Sperare poi in 7 giorni di tempo splendido e con vento accettabile era forse chiedere troppo alle divinità dei “cinque forzieri della grande neve“, questo è il significato di Kanchenjunga.

“Faremo tesoro di quanto abbiamo imparato questa volta sulla montagna, un po’ come è stato per il Nanga. È un obiettivo ambizioso, ma niente è impossibile” hanno scritto. Niente fumetto finale, fin ora. La verità è che al Nanga non hanno fatto tesoro solo dell’esperienza dei precedenti tentativi, che per la verità li aveva portati a riconfermare la salita su una via (Messner-Eisendle) poi rivelatasi non salibile da loro in quel momento, ma anche della scelta di una via diversa e dell’esperienza, questa sì vincente, di Ali Sadpara e Alex Txicon.

Non ci rimane che attendere la prossima volta.

 

Foto in alto @ Simone Moro Facebook Page

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