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“Addio Ueli Steck” di Agostino Da Polenza

Ueli Steck s’è guadagnato per la prima volta tutte le prime pagine dei quotidiani: il Corriere gli dedica una grande foto centrale nonostante la straripante mole di notizie sulle primarie del PD. Non le ottenne certo con una via nuova sull’Annapurna in 28 ore, andata e ritorno, o con il record reiterato all’Eiger, salito nel tempo durante il quale noi comuni esseri mortali ci sediamo a pranzo e ci rialziamo dopo il caffè, e tantomeno quando gli furono assegnati due Piolet d’Or.

L’uomo dei record leggeri ma sportivamente pesantissimi, l’alpinista che dopo l’Annapurna aveva detto: “sto esagerando, devo riflettere”, e che prima di partire per questa sua traversata tra Everest e Lhotse aveva scritto: “Il mio fallimento sarà il giorno quando non tornerò più a casa”. È stato probabilmente travolto da una scarica di ghiaccio mentre si allenava sul Nuptse, la montagna dirimpettaia della parete Sud dell’Everest. Sotto quella parete passano tutti gli alpinisti che vanno all’Everest, tutti i 500 “sfigati” turisti d’alta quota e i loro accompagnatori professionisti. Bastava alzare lo sguardo per vedere il puntino Steck su quella parete, che per tutti loro rappresenterebbe un’impresa alpinistica formidabile e impossibile, ma per Ueli era un allenamento.

Lo hanno visto cadere, lo hanno raggiunto alcuni tra gli Sherpa più bravi, con il suo compagno di quest’avventura estrema Tenji Sherpa, lo hanno recuperato e ricomposto in un sacco barella e portato in elicottero prima a Lukla e poi a Kathmandu.

Paradossalmente il primo dei 10 alpinisti che Messner alcuni giorni fa aveva pronosticato come tributo di vite umane, in una stagione che assommava troppi pretendenti alla vetta dell’Everest, un calcolo non cinico ma semplicemente statistico, è il più forte al mondo tra gli alpinisti d’alta quota. Una follia dell’imponderabile che ancora una volta ci mette di fronte all’assurdo della vita e a qualche commento sgangherato, o forse semplicemte poco supportato da esperienza e competenza.

Vogliamo salutare Ueli Steck con le parole di un altro alpinista, diverso ma egualmente grande, che ci ha lasciato troppo presto, Karl Unterkicher: “Siamo nati e un giorno moriremo. In mezzo c’è la vita. Io la chiamo mistero, del quale nessuno di noi ha la chiave. Siamo nelle mani di Dio… e se ci chiama dobbiamo andare. Sono cosciente che l’opinione pubblica non è del mio parere, poiché se veramente non dovessimo più ritornare, sarebbero in tanti a dire: “Cosa sono andati a cercare là? Ma chi glielo ha fatto fare?”. Una sola cosa è certa, chi non vive la montagna, non lo saprà mai! La montagna chiama”.

Si è in bilico, come su una sottilissima cresta, tra la grandezza di uomini e imprese; il rammarico di non averli più con noi e la consapevolezza che quel loro osare supremo è stato il cemento con il quale hanno dato forza e bellezza alle loro imprese. La cantilena che contrappone un giorno del leone ai cent’anni della pecora insidia le nostre certezze, eppure sappiamo che l’umanità esiste perché è stata forgiata dai leoni e sfamata dalle pecore. Non me ne vogliano i vegani.

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