Gente di montagna

A tu per tu con Spencer Gray e Ryan Griffiths, gli outsiders dei Piolets d’Or 2025

La spedizione immaginifica e senza sponsor della cordata statunitense al Kaqur Kangri ha colpito la giuria per l’originalità e le difficoltà tecnico-logistiche su una montagna che nessuno aveva salito dal 2002

Non mi aspettavo cotanta delizia. È con queste parole che comincia l’articolo scritto da Spencer Gray per l’American Alpine Journal, la cui lettura è stata caldamente consigliata da nientemeno che Victor Saunders durante la cerimonia di premiazione degli scorsi Piolets d’Or. Un pezzo altrettanto delizioso, capace di relazionare in maniera brillante una salita che, come la montagna sulla quale è stata portata a compimento, sarebbe altrimenti risultata poco illuminata dai riflettori. Usare il condizionale è però d’obbligo visto che, esattamente un anno dopo, la giuria dei Piolets d’Or 2025 ha deciso di premiare proprio questa realizzazione: una linea senza nome firmata da Spencer Gray, 39 anni, e Ryan Griffiths, 27 anni, sul Kaqur Kangri, cima nel remoto Nepal occidentale che, con i suoi 6.859 metri, non vedeva anima viva da quasi un quarto di secolo. Ovvero da quando, nel settembre 2002, un team giapponese appartenente al club alpino dell’università di Kyoto, guidato da Toyoji Wada, ne aveva raggiunto la cima, approcciando la montagna dal Tibet e risalendone la cresta orientale.

L’obiettivo di Spencer, Ryan e del loro compagno di cordata Matt Zia era tuttavia la parete sud, descritta nelle relazioni dei precedenti avventori con parole nient’affatto attraenti. E studiabile, dalle immagini che gli americani avevano a disposizione, solamente per quanto riguardava la sua parte superiore, che mostrava invece una parete di roccia compatta e promettente. «Penso che l’immaginazione faccia parte della nostra ricerca in montagna – ha raccontato Spencer durante la nostra intervista. – La creatività è un elemento fondamentale nell’alpinismo che voglio fare e, senza una tela bianca davanti, questo approccio non funzionerebbe».

Una tela bianca come la parete sud del Kaqur Kangri. Chi ha avuto l’idea di esplorare questa zona del Nepal e questa montagna in particolare
Spencer: «Per me si trattava del quinto viaggio in Himalaya. Avevo conosciuto Matt Zia in Patagonia nel 2016 e, due anni prima della nostra spedizione al Kaqur Kangri, eravamo stati in India assieme. Entrambi parlavamo di voler fare un altro viaggio e avevamo adocchiato questa vetta che serbava in sé tutte le caratteristiche che ci piacciono: ha la quota necessaria ad una cima per richiedere a chi la tenta uno sforzo supplementare, ma non è così elevata da impedirti di spingere molto, anche tecnicamente. In più, è posta in una zona piuttosto remota, capace di offrire una vera avventura».
Ryan: «Il collegamento fra me e Spencer è stato proprio Matt, che vive come me in Montana. Siamo entrambi guide alpine e ci conosciamo da parecchio. Quando si è trattato di coinvolgere una terza persona nel loro progetto, Matt ha pensato a me. Prima di partire abbiamo passato un po’ di tempo ad affinare la cordata arrampicando a Squamish, vicino a dove abita Spencer, e scoprendo così una certa alchimia, oltre che un senso dell’umorismo molto simile».

Affiatamento che, una volta in Nepal, vi è forse servito per affrontare al meglio le difficoltà, visto che non sono state proprio poche.
Ryan: «E che si sono presentate immediatamente. Io e Matt eravamo molto amici di Michael Gardner, scomparso sullo Jannu proprio il 10 ottobre 2024, tre giorni prima che iniziassimo la salita. Ci siamo subito chiesti se fosse giusto andare avanti oppure no. Da una parte sapevamo che Mike sarebbe stato felice di vederci continuare e, pragmaticamente, non potevamo fare nulla per lui. Ci trovavamo invece nella posizione di fare qualcosa di bello, di cui ci importava molto e che avevamo sognato. È stato questo pensiero a farci, in un primo momento, proseguire».
Spencer: «Io non conoscevo direttamente Mike, ne avevo soltanto sentito parlare, eppure, oltre ad essere ovviamente molto dispiaciuto per la notizia, percepivo che psicologicamente quello era un grande ostacolo per noi. Al secondo giorno di salita, come se non bastasse, ci si è rotto il fornellino e quello è stato un momento in cui siamo stati tentati di mollare tutto, perché per scendere a cambiarlo e tornare in parete abbiamo dovuto spendere un’intera giornata».
Ryan: «Siamo scesi io e Spencer, Matt è rimasto solo sulla parete. E così ha avuto il tempo di processare meglio la perdita di Mike, decidendo infine di scendere e di aspettarci al campo base, mentre noi continuavamo la salita».

Una scelta complessa, ma che siete riusciti ad affrontare bene. A tal proposito, quali sono le caratteristiche che più vi hanno aiutato, l’uno dell’altro, a gestire la cordata?
Ryan: «Restando sul tema, direi la straordinaria capacità di comunicare che possiede Spencer. Abbiamo dovuto affrontare discorsi molto difficili durante la spedizione, ma grazie a lui lo abbiamo sempre fatto in maniera aperta e senza timori».
Spencer: «Ryan è in grado di avere davanti a sé un’immagine della linea che vuole scalare e di tenere la cordata concentrata sui pericoli, nelle diverse fasi della salita. Sa pensare ai due metri che ha subito davanti ma, in prospettiva, anche ai 200 metri che ancora devono venire. Questa capacità di visione e pianificazione è preziosa».

Al contrario, c’è qualcosa che durante la vostra coesistenza in parete avete fatto fatica a mandare giù?
Spencer: «Siamo entrambi molto alti e questo crea diverse tensioni, anche a livello pratico. Entrambi concordiamo nell’aver bisogno di compagni di cordata più bassi (ride, ndr), in modo da dormire meglio in tenda».
Ryan: «Quello che più mi ha infastidito di Spencer durante questa spedizione è successo durante il terzo bivacco, quando ad un certo punto, per non so quale motivo, ci siamo scambiati i materassini gonfiabili e il suo è scoppiato, subito. Ero già sdraiato e ho potuto soltanto sentire l’aria che mi passava attraverso l’orecchio, prima di trovarmi scomodamente a terra. Perché diavolo mi hai dato il tuo materassino?».

Bivacchi psichedelici a parte, la salita è proseguita poi meravigliosamente, specie su quella roccia che, già dalle immagini, prometteva tanto bene.
Spencer: «Non penso sia così usuale trovare roccia fantastica a quelle altezze. E questo mi porta a descrivere il nostro itinerario come una di quelle linee che consiglierei agli amici di ripetere, se solo l’avvicinamento non fosse così remoto! Siamo stati davvero sorpresi da quanto fosse divertente arrampicare».

Un divertimento fine a se stesso, altro tema che rende la vostra salita interessante. Non avete avuto sponsor né aiuti, sia a livello logistico che finanziario.
Ryan: «Il nostro budget ci bastava e c’è da dire che non si è trattato di una salita così dispendiosa, economicamente parlando. Di certo essere liberi da contratti ci porta a concepire il nostro andare in montagna nella maniera più indipendente possibile. A livello logistico, oltre a Matt, ci hanno aiutato Devendra (Deven) e Buddhi Tamang, presenti al campo in qualità di traduttore e cuoco».
Spencer: «In salite come questa la chance di fallire ha un suo appeal, che in presenza di altri interessi non potresti permetterti di seguire deliberatamente. A differenza di Ryan e Matt, la montagna non è nemmeno la mia prima professione: lavoro nel campo dell’elettricità e presiedo un’associazione di compagnie che operano in questo settore nel nord ovest degli Stati Uniti. Cerco di accorpare i periodi di ferie in modo da potermi permettere un mese all’anno di spedizione, senza escludere mai nessun posto che valga la pena di essere esplorato. Quest’anno per esempio sono stato ad arrampicare in Madagascar».

A spingervi è una curiosità totale nei confronti della montagna, forse alla base di quel “puro stile alpino” che i Piolets d’Or sembrano cercare ogni anno fra le salite nominate.
Spencer: «Assolutamente sì. Le mie spedizioni preferite sono quelle per le quali non ho molte informazioni, quelle che richiedono la giusta dose di improvvisazione. Allo stesso modo devono essere estetiche, richiedere abilità diverse all’alpinista. Questi sono gli ingredienti che, messi insieme, rendono la ricetta stimolante».

E che, alla fine, gustando la torta, ti fanno dire: Non

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