Storia dell'alpinismo

Agosto 1955, la clamorosa solitaria di Walter Bonatti sul Dru

Settant’anni fa l’alpinista lombardo traccia una delle vie più dure del massiccio del Bianco e delle Alpi. Ai piedi di uno strapiombo senza fessure, lancia una corda verso l’alto, e poi si issa di peso

Venti agosto del 1955, rocce del Pilastro Sud ovest del Dru. All’alba un uomo lascia il suo quarto bivacco nel cuore di una delle muraglie più impressionanti delle Alpi. Ha le mani piagate, ha passato gli ultimi giorni in una solitudine totale, interrotta dalle cadute di sassi e dal passaggio di un piccolo aereo. 

Sotto ai suoi piedi sono gli strapiombi del Ramarro e le verticali Placche Rosse. Resta il passaggio più duro, ma la grinta di Walter Bonatti c’è ancora. Metro dopo metro, risale la parete “liscia intorno, rientrante al centro e immensamente strapiombante al disopra” fin dove non può scendere né salire. Una traversata lo porta ai piedi di uno strapiombo di una dozzina di metri, oltre il quale la roccia sembra diventare più facile.

Sono la disperazione e la grinta a suggerirgli una via d’uscita. Annoda alla corda “un sistema tentacolare di nodi”, poi prova – una due, dieci volte – a lanciarlo su delle scaglie di granito una dozzina di metri più in alto. Alla fine, la corda sembra tenere. Reggerà? L’unica è tentare, e Walter lo fa, mentre “cento pensieri si imprimono nell’animo per tutta la vita”. 

Si issa a forza di braccia, fino a rocce più facili. Prima della vetta ci sono ancora passaggi difficili, pendoli, tratti di roccia friabile. Ventiquattr’ore dopo il passaggio del laccio, alle 16.37 del 21 agosto, il migliore alpinista europeo del momento è sulla vetta del Petit Dru, accanto alla statua della Madonna deformata dai fulmini. Tre amici, e un bivacco tranquillo, lo attendono in discesa.

Nato a Bergamo nel 1930, arrivato giovanissimo alle grandi imprese e destinato a lasciare l’alpinismo di punta a 35 anni, Walter Bonatti è il grande protagonista degli anni Cinquanta e Sessanta sul Monte Bianco. Il suo alpinismo conserva il coraggio dei campioni d’anteguerra, ma ha a disposizione nuovi mezzi tecnici. 

Corde di nylon e suole Vibram, caschi e imbraghi, chiodi più funzionali, un abbigliamento più impermeabile e caldo consentono di cimentarsi con problemi impensabili negli anni Trenta. Le invernali, le solitarie, le pareti più verticali e difficili. 

Dopo la Est del Grand Capucin, salita con Luciano Ghigo nel 1951, Bonatti si trasferisce a Courmayeur, e affronta uno dopo l’altro gli “ultimi grandi problemi” del Bianco. La sua ricerca lo porta sulla Punta Whymper delle Jorasses e sul Grand Pilier d’Angle, dove apre tre vie. 

Walter sale il Pilastro Rosso del Brouillard e tenta il Pilone Centrale, dove la ritirata di sette alpinisti italiani e francesi si trasforma, nel 1961, in una tragedia che fa storia. A simboleggiare l’alpinismo solitario di Walter, la sua capacità di spingersi al confine della vita, è però il Pilastro Sud ovest del Dru, la guglia che domina la Mer de Glace.

Il transalpino Henry Brégeault lo ha definito “la montagna francese per eccellenza, la gemma nel diadema di Chamonix, la disperazione per l’occhio di un alpinista”. Il Grand Dru, con i suoi 3754 metri, è più alto. Ma la parete Ovest, la più impressionante, culmina sul Petit Dru che è ventuno metri più basso. 

Le salite della normale (1879), della Nord (1935) e della Ovest (1952), tra le più dure delle rispettive epoche, sono opera di cordate francesi. A rompere questa egemonia è Walter. Studiando la muraglia, scopre che la via di Guido Magnone, Lucien Bérardini, Adrien Dagory e Marcel Lainé risolve solo in parte il problema. 

Più a destra, una “pura ed elegante struttura domina il versante occidentale della montagna”. “Mancava l’itinerario perfetto a una montagna perfetta” conclude. Nel vocabolario di Bonatti, una frase così compare solo quando lo zaino è già pronto. 

Il primo tentativo con Carlo Mauri nel 1953

All’alba del 15 agosto 1953, Bonatti e Carlo Mauri, uno dei pochi amici con cui si sente alla pari (cinque anni dopo saliranno insieme il Gasherbrum IV) salgono verso il Dru, nel canalone che raccoglie i massi, la neve e il ghiaccio che si staccano dalla parete. 

Dall’attacco della via dei francesi, i due continuano nell’imbuto, dove quel giorno non precipita nulla di grosso. Un temporale li costringe a ripararsi ai piedi delle Flammes de Pierre. Grandine, pioggia e neve si alternano fino al mattino. Poi il tempo migliora, e gli alpinisti salgono all’attacco del Pilastro. Un nuovo temporale li ferma. 

L’indomani il tempo è bello, ma i viveri sono finiti. Tre tiri di corda portano Mauri e Bonatti su un terrazzo dove trovano dei cunei di legno e dei fichi secchi. Una traversata conduce alle vere difficoltà, ma l’energia per continuare non c’è più. Una corda doppia dopo l’altra, i due scendono al Montenvers.

Il 1954, per Bonatti, è l’anno del K2, e del terribile bivacco a più di 8000 metri di quota. Il 24 luglio 1955 torna sul Dru con Mauri, Andrea Oggioni e Josve Aiazzi. Stavolta nel canalone precipitano delle grosse scariche, e il bivacco è tormentato da pioggia e neve. 

Una schiarita permette di ripartire, ma la neve blocca i quattro sulla “cengia dei cunei misteriosi”. Nel secondo bivacco, mentre il maltempo indica che anche stavolta occorrerà rinunciare, una enorme frana sconvolge il canalone di attacco, che si riempie di blocchi in bilico. La discesa richiede otto ore di pericoli e paure.


Finalmente la vetta. Da solo

I giorni che seguono per Bonatti sono difficili. La crisi seguita al K2 non è finita, l’interrogativo di cosa fare nella vita tormenta questo venticinquenne che ha tagliato le sue radici lombarde ma non ha ancora messo su casa ai piedi del Bianco. La scelta di tentare il Dru da solo gli dà uno scopo. “Mi impongo di credere che non sono un uomo finito” annota. 

L’11 agosto, con Paolo Ceresa, Bonatti arriva al Montenvers e viene bloccato da quattro giorni di maltempo. A Ferragosto i due raggiungono il canalone, ma il saccone con chiodi, corde, moschettoni e cibo non può essere trascinato da lì. Occorre alleggerirlo, e seguire un itinerario diverso. 

Il 17, dal rifugio della Charpoua, Walter sale alla Brêche des Flammes de Pierre e inizia a scendere in corda doppia nel gelo del canalone “triste e solitario come una tomba”, di fronte al Pilastro già scaldato dal sole. Le corde sono ancora di canapa, i discensori non ci sono, il peso del saccone complica tutto. 

Una martellata ferisce Walter a un dito, una perdita alla borraccia dell’alcool del fornello lo costringe a gettare buona parte del cibo, e a rinunciare a sciogliere neve e ghiaccio per bere. L’arrampicata inizia il 18, e nei primi tiri il ghiaccio incrosta la roccia che non riceve mai il sole.

Dopo il punto raggiunto con Mauri, Bonatti affronta delle placche scure che sembrano un ramarro aggrappato al Pilastro. Fessure e camini sono intasati di ghiaccio, e costringono a passaggi di artificiale pericoloso. Poi una scaglia consente di riposare al sole. 

Alle fessure del Ramarro seguono un temporale, un nuovo bivacco e una faticosa giornata sulle Placche Rosse, che l’alpinista per autoassicurarsi deve percorrere per tre volte. Bonatti parla allo zaino, il solo “compagno di cordata”. A fargli compagnia, la sera, sono le luci degli amici dal basso. 

Il momento della verità arriva dopo le Placche Rosse, dove gli strapiombi sembrano impedire il passaggio. Ancora chiodi, ancora scaglie instabili, ancora passaggi al limite. Seguono il lancio del laccio, e poi placche e fessure più facili. Il dolore alle mani è tremendo, il corpo è disidratato ma si può salire veloci. 

Quando sta per lasciare i chiodi rimasti, Walter ha un presentimento e non lo fa. Negli ultimi metri il Pilastro si raddrizza, ma nulla può fermarlo mentre affronta di slancio il passaggio, schiva un masso che si stacca, e prosegue “animato da una forza soprannaturale”. 

Sulla cima si ferma per qualche minuto, poi scende in doppia sulla normale fino a raggiungere Ceresa e Lucien Bérardini, uno dei primi salitori della Ovest. La competizione tra gli alpinisti è intensa, ma l’amicizia è più forte. 

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