AlpinismoStoria dell'alpinismo

Lost in America: l’incredibile avventura di Luigino Airoldi dall’Alaska all’Antartide

Negli ultimi giorni del mese di maggio del 1970 una spedizione alpinistica patrocinata dal Club Alpino Accademico Italiano lascia l’Italia per raggiungere l’Alaska. Del piccolo gruppo di scalatori fanno parte Pier Luigi Bernasconi, Ettore Villa, Guido della Torre e Giuseppe Crippa, leader della squadra è il Ragno Pier Luigi Airoldi, per tutti Luigino.

Luigino Airoldi, lo Zingaro delle Montagne

Fra i cinque è lui il più esperto conoscitore delle montagne dell’estremo nord del continente americano. Nove anni prima, in quelle stesse terre, era stato fra i protagonisti di una delle più grandi imprese della storia dell’alpinismo. Assieme a Riccardo Cassin, Annibale Zucchi, Romano Perego, Gigi Alippi e Jack Canali aveva portato a termine la prima salita del gigantesco sperone Sud del McKinley, la vetta più alta del Nord America. Aveva 29 anni allora ed era alla sua prima esperienza fuori dalle Alpi. Non la prima esperienza alpinistica, ma le prima esperienza di viaggio, in generale. Come gli altri suoi compagni (Cassin escluso), anche lui non era mai stato fuori dall’Italia. Qualche sconfinamento a Chamonix o fra le piode svizzere della Val Bregaglia, certo, ma poco di più.

Prendere un aereo e lasciarsi l’Europa alle spalle, attraversare l’Oceano e mettere i piedi sulla terra di un altro continente era per tutti loro qualcosa di inedito, già di per sé meraviglioso e insperato. Ma per Luigino fu anche di più. Fu una folgorazione, la scoperta di una dimensione e di uno stile di vita. Questo è ciò per cui era nato: viaggiare, scoprire gente e luoghi alieni, inimmaginabili e infinitamente distanti da quell’angolo di piccolo mondo antico dove aveva aperto gli occhi per la prima volta, ai piedi della Corna di Medale.

Non solo viaggiare, però. Piuttosto viaggiare per scalare montagne. Questo voleva essere. Questo sarebbe diventato: lo Zingaro delle Montagne. Quella zingarata sul McKinley, infatti, fu solo la prima di tante. Più di 40, se si contano solo le spedizioni alpinistiche, ma quando non era in giro in ferie lo Zingaro viaggiava anche per lavoro. La ditta dove era impiegato realizzava impianti nei luoghi più remoti della terra… e vallo a trovare un altro che è contento di prendere su e andare per tre o quattro mesi a faticare in mezzo al nulla della Siberia! Vale la pena di tenerselo stretto uno così, anche a costo di concedergliene poi altrettanti di mesi, magari per andare a ficcarsi per i fatti suoi nel bel mezzo di qualche altro nulla…

Ma anche gli zingari hanno un baricentro, un posto dove, gira gira, finiscono sempre per ritornare. Un luogo del destino. Per Luigino quel luogo è proprio l’Alaska.

L’Alaska e il Monte Hubbard

C’era qualcosa a chiamarlo, sin dalla prima volta, quando, al rientro dal McKinley, vide quella cartolina in un negozio di articoli sportivi: un montagnone che si alzava imponente sopra il fiume del ghiacciaio, un caos di seracchi accavallati uno sopra l’altro per almeno 2000 metri di dislivello dalla base alla cima e nel mezzo uno spettacolare sperone di roccia. “Si chiama Monte Hubbard – gli dissero – ed è alto 4557 metri. Lo hanno salito solo una volta, dal facile versante Est. Lo sperone che vedi guarda a ovest e nessuno ci ha mai messo mano. Perché? Perché è un brutto affare! Si trova su, nel gruppo del Sant Elia, al confine fra l’Alaska e lo Yukon e solo ad arrivarci sotto è un’ avventura…”.

Luigino se l’era tenuta stretta sul cuore per nove anni quella cartolina e ancora di più quelle parole: “Solo ad arrivarci sotto è un’avventura!”, che al suo orecchio suonavano più irresistibili del canto di una sirena.

Poi, finalmente, arriva l’occasione buona: i compagni giusti, qualche finanziatore abbastanza matto da innamorarsi anche lui di un’impresa come quella e via, si parte! E l’avventura che cercano i cinque la trovano da subito. Puntano a raggiungere la montagna a bordo di un piccolo aereo da turismo, ma le tempeste artiche non giocano certo a favore della regolarità dei voli: con un primo giro il pilota scarica Airoldi, Bernasconi e Villa sul ghiacciaio, ma poi rimane bloccato a terra dal maltempo per più di dieci giorni e i tre restano isolati, in pratica “nudi e crudi”, visto che la maggior parte del cibo e delle attrezzature sarebbe dovuta arrivare con i voli successivi. Ovviamente la radio per tenere i contatti col resto mondo è un lusso che va oltre il budget della spedizione…

Visto che a star fermi il tempo non passa mai e la testa finisce per perdersi in brutti pensieri, i tre si danno da fare e arrivano ad installare il campo avanzato a 3400 metri.

Nei giorni successivi finalmente il tempo migliora e arrivano anche gli ultimi due compagni, insieme al resto del materiale. Si può cominciare a salire!

Arrivare sotto allo sperone è una ravanata infinita. Uno slalom attraverso un labirinto di crepacci e di “buchi” dove rischi di sprofondare ad ogni passo. Le bandierine installate lungo il percorso si rivelano fondamentali per tenere la rotta e non perdersi nel whiteout della bufera. Avanti e indietro, sempre carichi come muli, per portare sotto allo sperone i viveri e le attrezzature per la parte superiore della salita.

Lo sperone è proprio come Luigino se l’era tante volte immaginato: quattrocento metri di terreno misto, bello ripido. Ci sono passaggi anche di V e VI, ma la difficoltà vera la fanno freddo e il maltempo che è sempre lì a bussare alla porta, per non parlare delle scariche di sassi e ghiaccio, che su un terreno del genere non mancano mai… Non si può andare spediti in un posto così. Ogni giorno si torna in parete, si strappa qualche metro e poi giù, di nuovo al campo avanzato.

Una fatica che sembra non a vere mai fine, ma, un poco alla volta, Luigino e compagni, dopo quattro giorni dall’inizio del “lavoro” sullo sperone, arrivano lì, a quell’ultimo diedrone strapiombante, da dove si sbuca sulla cresta finale. È una brutta bestia il diedro: roccia marcia, bagnata, e fessure cieche. Luigino ci si picchia per tutta una giornata, un po’ di fino, giocando su staffe e chiodini, e un po’ tirandosi fuori alla disperata dai guai. Quando la roccia finisce, però, il suo sguardo può finalmente seguire il profilo bianco della cresta che porta su verso la vetta. Non oggi però.

Adesso è tempo di preparare il bivacco. La sella alla base della cresta sembra fatta apposta per piazzare la tenda Pamir d’alta quota. Una bella dormita e poi domani… Domani niente: il domani è bufera. E così dopodomani e il giorno dopo ancora. Tre giorni in tre, fermi immobili, schiacciati come sardine in una scatoletta di tela, sperando che alla prossima raffica di vento non si prenda tutti il volo: tenda, attrezzature e alpinisti compresi…

Dopo tre giorni così alla cima chi ci pensa più? L’idea fissa è scendere, scappare via da lì appena possibile. Poi, dopo, ci si penserà!

E allora, quando il vendo la smette un po’ di sbraitare, giù tutti lungo le fisse, di corsa verso il campo intermedio. Tutti tranne Luigino, perché lui il Monte Hubbard se l’è tenuto per nove anni stretto nel cuore e sa che, se scende ora, forse gli toccherà dirgli addio per sempre. Proprio adesso, proprio a un passo dalla cima:“Andate giù voi. Io resto qui, che da solo sto anche più comodo e di cibo non ne manca…”.

Si salutano i tre compagni – ciao, a domani! – e non sanno che non si vedranno più, almeno non su quella montagna, non in Alaska!

Il giorno dopo il tempo non è proprio dei migliori, ma Luigino ha dormito bene e si sente in forze. Zaino in spalla (con dentro anche sacco a pelo e la tendina rossa, quella leggera, perché non si sa mai…) e si parte!

Che fatica con tutta questa neve e che frustrazione: sembra di essere arrivati, ma dietro ad ogni dosso ce n’è sempre un altro, un po’ più alto, poi un altro ancora, poi… il nulla! Non il nulla cristallino del cielo che circonda da ogni lato la vetta, ma quello lattiginoso della bufera. Non ci sono più né alto né basso in un nulla del genere. Non c’è niente da fare, se non tornare indietro, ritrovare la traccia delle proprie peste sulla neve prima che il vento le cancelli, prima di essere ingoiati per sempre dal nulla. Giù, un dosso dopo l’alto, fino ad un punto abbastanza riparato dove scavare una truna, cacciarcisi dentro e buona notte. Domani si vedrà…

E domani ci si vede, ci si vede proprio bene! La bufera è passata e questa volta il cielo è davvero di cristallo. Allora su, di nuovo, una gobba dopo l’altra, fino quando gobbe da salire non ce ne sono più. È finita! La montagna che Luigino si è tenuta stretta sul cuore per nove anni adesso può lasciarla andare, sperando che anche lei sia disposta a fare altrettanto con lui…

La discesa

Giù, veloce, perché il vento ha pressato la neve e non si sprofonda più come nei giorni precedenti, giù verso la sella e il lusso della tendina Pamir. Solo che la tenda è sparita. Al suo posto c’è una sottiletta tutta stracciata e mezza sepolta dalla neve.  C’è poco da fare se non continuare a scendere, raggiungere i diedri e cominciare a calarsi lungo le fisse.

Piccolo particolare: anche i diedri sono spariti! Cioè, non proprio scomparsi, solo che non sono più i diedri neri e rocciosi di qualche giorno prima. Adesso sono una specie di libro aperto con le pagine completamente bianche. Uno strato di neve pressata li ricopre completamente e le fisse sono sotto. Bisogna tirarle a galla un centimetro alla volta. Bisogna fare una fatica enorme e un’attenzione ancora più grande per non combinare qualche cavolata proprio qui, sul più bello. La giornata viene decisamente lunga e solo a sera Luigino sbarca alla base delle corde fisse. Il campo avanzato lo vede, ma è ancora ben distante. Per oggi è abbastanza così. Nello zaino ci sono il gas e le scatolette recuperate dai rottami della Pamir e la cena è assicurata. A scavare trune ormai è diventato un professionista, quindi: buona notte!

Il giorno successivo l’arrivo al campo avanzato è desolante. Dei compagni non c’è traccia, ma di questo se n’era già accorto. Quello che fa impressione però è la devastazione: non è rimasto in piedi nulla, come se fosse stato investito da uno tsunami. Di nuovo non resta che proseguire verso il basso. Solo che la stanchezza comincia a farsi sentire e gli ci vogliono dieci ore per arrivare fino al bordo superiore dello zoccolo che si affaccia sul campo base. Ormai è buio e un altro bivacco è inevitabile. C’è giusto il tempo per dare un’occhiata verso il basso e accorgersi che anche giù al base non si vede anima viva… Svaniti nel nulla!

Il rocambolesco rientro

Quando la mattina successiva Luigino raggiunge il campo dei suoi compagni non c’è traccia. Fruga nelle tende sperando di trovare un biglietto, un messaggio di spiegazione, ma niente. Se ne sono andati come in fuga, abbandonando tutto, persino lui. “È un mistero – pensa – ma c’è poco da rimuginare, il perché e il percome me lo racconteranno quando ci rivedremo. Adesso non mi resta altro da fare che avviarmi sul ghiacciaio, di sicuro manderanno il pilota cercarmi”.

Dopo una notte trascorsa al campo per rifocillarsi Luigino riprende la sua marcia. Dietro si trascina una specie di slitta dove ha caricato in abbondanza viveri e gas. Si sa mai… Le tende sono piazzate su un colle sotto al quale il ghiacciaio si biforca in due lingue che procedono in direzioni opposte. Difficile capire quale è quella da cui sono arrivati in volo. Vada per la più “logica”, ovvero quella più grande, che scende dolcemente verso sinistra.

Un uomo su un ghiacciaio sperduto nel Grande Nord è un puntino di colore in mezzo al bianco infinito, come un naufrago su una barchetta in mezzo all’Oceano. Solo che sul mare di ghiaccio non ci sono navi che possono incrociare la tua rotta. Allora Luigino la salvezza l’aspetta dal cielo. Da San Nicolò, il patrono di Lecco a cui l’alpinista è devoto, ma soprattutto da Joe, il pilota dell’aereo che lo ha accompagnato sotto al Monte Hubbard e che adesso spera arrivi a riportarlo a casa.

Sono passati 13 giorni da quando ha salutato i compagni su nella tenda sopra lo sperone e anche a uno come lui, abituato a pensare sempre positivo, qualche dubbio comincia a venire: “Quando arriva quel dannato aereo? Ma poi chi cavolo ha detto che deve arrivare? Magari è tutto un film che mi sono fatto io…”. Gioca brutti scherzi la solitudine. Può capitare di convincersi di cose che non sono affatto vere. Si può essere convinti che la direzione scelta sia quella più logica, quando magari era quella opposta. Puoi anche desiderare così tanto che arrivi a prenderti il tuo aereo da udire il ronzio che si avvicina. Poi, quando oltre che sentirlo lo vedi l’aereo, capisci che non sei diventato matto: è tutto vero, porca miseria, eccoli che arrivano!

Non subito, però, che mica ci sei stato ancora abbastanza su questo dannato ghiacciaio! Ti fanno un giro attorno e ti fan qualche segno che non capisci, poi se ne vanno. A te non resta che tirare fuori ancora un po’ di speranza, speranza che domani facciano ritorno per tirarti finalmente fuori di lì.

Ed eccola la cavalleria dell’aria! Dopo quattordici giorni di solitudine e ghiaccio Luigino spicca finalmente il volo, solo che al suo fianco non c’è Joe, ma un pilota sconosciuto in uniforme. Adesso però è troppo stanco per le presentazioni e le spiegazioni, l’unica cosa che riesce a fare è addormentarsi, non prima di aver mandato un pensiero di gratitudine a San Nicolò.

Le spiegazioni arrivano il giorno dopo, nell’ospedale militare canadese in cui si risveglia. Quello che è successo ha dell’incredibile.

I compagni scomparsi

Nei giorni successivi a quando i compagni lo avevano salutato su al colle ed erano scesi al base, proprio mentre lui tentava la vetta, una valanga enorme si era staccata da sopra lo sperone, spazzando tutto il versante della montagna e distruggendo il campo intermedio. Allo scadere del tempo previsto Joe era arrivato come da accordi a recuperare la squadra con il suo aereo e, assieme a uno degli altri alpinisti, aveva sorvolato la parete in cerca di Luigino. Solo che il piccolo aereo non era in grado di volare sopra i 4000 metri di quota ed essendo lui ancora nei pressi della cima non erano riusciti ad individuarlo.

Vista la difficoltà del volo di rientro e l’approssimarsi di nuovi fronti di maltempo, il pilota aveva convinto tutta la squadra a mettersi subito in salvo, abbandonando il campo col programma di tornare appena possibile a cercare il disperso. Così in effetti avevano fatto, solo che, quando erano tornati, lui non era già più sulla montagna, ma si era incamminato sul ghiacciaio, non quello “giusto” che loro avevano scrutato attentamente salendo, ma l’altro, quello che scendeva a sinistra rispetto al campo base, non in direzione dell’Alaska, ma dei territori canadesi dello Yukon.

E l’altro aereo allora? Come era arrivato fino a lui? Semplice: per puro caso!

Il pilota, proprio come Luigino, si era perso. Era un aviatore dell’aeronautica canadese finito fuori rotta che, gironzolando per ritrovare la strada di casa, si era imbattuto nel naufrago dei ghiacci. Il primo giorno non lo aveva recuperato proprio perché, essendo un militare ed avendo già diverse spiegazioni da dare per quel suo errore di navigazione, aveva preferito tornare alla base per chiedere un permesso ufficiale prima di intervenire.

Fine, anzi, lieto fine della storia dunque? Non esattamente…

Verso l’Antartide

L’eco del trambusto messo in piedi dalla scomparsa di Luigino, infatti, ha fatto il giro di mezzo mondo e in Italia i giornali sono usciti con titoli che già davano per certa la sciagura. La vicenda dell’alpinista disperso e ora redivivo è divenuta un caso diplomatico, tanto che il console italiano negli USA, Eernani Faè, lo vuole incontrare di persona, un po’ per sincerarsi delle sue condizioni, un po’ perché, essendo stato anch’egli in gioventù un talentuoso alpinista, ha una voglia matta di farsi raccontare in prima persona questa pazzesca avventura…

Fatto sta che, fra una chiacchiera e l’altra, il console se ne salta fuori con questa storia della missione della marina militare italiana diretta in Antardide. Una cosa grossa, con di mezzo un veliero, un capitano di lungo corso, suo amico fraterno, e poi uno staff di ricercatori e scienziati…Insomma, alla missione manca un membro dell’equipaggio e serve proprio uno come Luigino, uno capace, una volta sbarcati in Antartide, di conquistare anche qualche vetta ancora inviolata, per l’onore dell’Italia.

Con il patriottismo Faè ha toccato il tasto giusto e Luigino non si fa troppo pregare: pronti si parte, direzione Antartide!

Però non si parte proprio subito, perché l’appuntamento con il veliero a Ushuaia, nella Terra del Fuoco, all’estremo sud del continente americano, è previsto solo di lì a tre mesi. Che fare per ingannare il tempo? C’è giusto quel vecchio amico di Lima, che da tanti anni lo invita a fare un giro dalle sue parti… Beh, il momento buono è arrivato! Se poi all’aeroporto di Lima incontri un gruppo di simpatici neozelandesi che ti invitano ad unirti alla loro spedizione fra le cime della Cordillera, che vuoi fare? Essere così scortese da dirgli di no? Poi, dopo il Perù e le bianche vette andine, un assaggio dei grandi spazi dell’Argentina non può certo mancare…

Insomma, fra una zingarata e l’altra, Luigino si presenta all’appuntamento proprio allo scadere del tempo concordato, solo che fra i moli di Ushuaia non riesce a scorgere alcun veliero. C’è solo una barca a vela di legno di poco più di 16 metri e sulla banchina lì accanto due tizi che lo salutano agitando le mani. Sono il Comandante Giovanni Ajmone Cat e… tutto il suo equipaggio.

Niente velieri quindi. Niente staff di eminenti scienziati a bordo, solo due eccentrici lupi di mare e un barcozzo che porta il nome di “San Giuseppe Due”. Luigino qualche dubbio se lo fa venire, ma il Comandante deve aver ricevuto qualche dritta dal console Faè e anche lui tira fuori la tiritera dell’onore e della Patria. L’alpinista di Lecco ci pensa un po’ su, poi da un calcio alla sua sacca e la butta giù dal molo, sul ponte del barcozzo: così nasce un marinaio.

Così comincia anche un’altra grande avventura che porterà il mozzo Luigino Airoldi a doppiare le acque burrascose di Capo Horn e poi giù, a sud, attraverso lo Stretto di Drake, fino alle coste della penisola antartica, facendo visita alle basi scientifiche internazionali. E le montagne? Di quelle in Antartide ce ne sono un’infinità, ancora tutte o quasi da salire e Luigino non ha che l’imbarazzo della scelta. Qualcuna l’affronta in solitaria, per le altre, quelle più impegnative e che richiedono un minimo di manovre di corda e assicurazione, i compagni non mancano: gli “abitanti” delle basi antartiche sono uomini di scienza, ma anche d’avventura, bravi a destreggiarsi con il microscopio ma capaci all’occorrenza di maneggiare anche ramponi e piccozza. Anche l’onore della patria è salvo: ora sulle mappe del continente di ghiaccio c’è una Cima Italia, e pure una Cima Europa.

La fine dell’estate australe segna la conclusione della spedizione: presto il mare tornerà a ghiacciarsi e la San Giuseppe Due deve fare di nuovo rotta verso nord per gettare l’ancora nel porto sicuro di Uschuaia. Sono passati dieci mesi da quando la Luigino ha lasciato l’Italia diretto al Monte Hubbard e ormai anche la più mirabolante fra le avventure dello Zingaro delle Montagne è giunta al termine.

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2 Commenti

  1. Mi ero divertito moltissimo mentre lo raccontava così per caso e rideva a crepapelle per la reazione della moglie quando ha scoperto per caso che era ancora vivo e vagabondava nelle Americhe !!! 🙂
    Tutto matto, ma indistruttibile!
    E non è stata l’unica volta 🙂 🙂 🙂

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