TRENTO — “La montagna è un valore importante per l’uomo degli anni duemila: forse ne ha bisogno di più dell’uomo di due secoli fa”. Roberto De Martin, 72 anni, Presidente del Trento Filmfestival dal 2011, ha raccontato ai nostri microfoni dove vanno la montagna e il cinema d’alta quota nel giorno in cui apre i battenti la 64a edizione del Trento Filmfestival, l’evento che ogni anno concentra il mondo della montagna, dall’alpinismo alla scrittura, dal cinema alla medicina, nella capitale del Trentino. Il prezioso e lungimirante punto di vista di un uomo che è stato Presidente Generale del Cai dal 1992 al 1998 e successivamente del Club Arc Alpin, la federazione dei club alpini europei.
Presidente De Martin, che importanza ha la montagna e che cosa vuol dire oggi fare un Festival di qualità?
Il fatto che il Festival di Trento sia una rassegna internazionale nata nel 1952 la dice lunga. Ho fatto un elenco degli alpinisti che abbiamo messo sul palcoscenico negli ultimi cinquant’anni, sono 132. Credo che riusciamo ad essere un crocevia molto importante per chi ama la montagna, non solo la montagna degli exploit ma anche la montagna delle escursioni, della conoscenza naturale. Faremo ad esempio una serata con Luca Mercalli e Luigi Ciotti sulla crisi ambientale ed etica, due facce della stessa medaglia. Vogliamo presentare la montagna per quello che è, un valore profondo che può essere gustato ad ogni età. Non è da dimenticare il tema della “montagnaterapia”: la montagna è un valore importante per l’uomo del 2000, che forse ne ha bisogno di più dell’uomo del 1800.
Il filmfestival nasce come un concorso cinematografico, ma oggi è molto di più… Quanto conta oggi nella manifestazione?
E’ corretto, è diventato di più. Però il fatto che si siano iscritti più di 500 film la dice lunga sul fatto che i cinefili sono importantissimi e con questo nome intendo anche sceneggiatori, registi, gente che fa dei film il proprio business. Abbiamo avuto un problema di quantità di film da selezionare, a qualità altissime. E’ un segnale importante per il settore.
Il cinema di montagna ha sempre avuto il problema di essere di nicchia e fermarsi dentro un circolo di appassionati. Secondo lei ne uscirà, e che strada bisogna seguire arrivare al grande pubblico?
Noi cerchiamo già di uscire dalla nostra nicchia, attraverso una iniziativa che si chiama “Festival 365”. Tramite il nostro sito, le sezioni Cai o i circoli culturali possono avere i nostri film da proiettare: abbiamo stimato nel 2015 più di 200 serate organizzate in tutta Italia. Questo la dice lunga su un certo tipo di fame che c’è in giro. Giustamente lei dice che le grandi case distributive non sono dalla nostra parte. Non lo sono ancora, direi, perchè qualche film è riuscito a bucare anche se non erano eccezionali, ad esempio penso a Everest che è andato nelle sale pochi mesi fa. Dal punto di vista della struttura non aveva l’appeal che invece altri film avrebbero potuto avere. Ne cito due. “Metamorphosen” del regista tedesco Sebastian Mez a cui è andata la Genziana d’oro due anni fa, che racconta la vita della popolazione di una remota zona degli Urali contaminata alla metà degli anni ’50 da un’esplosione nucleare. Il regista ha rotto il silenzio ed è andato sul territorio a intervistare i sopravvissuti, raccontando la loro storia dopo averne fatto la tesi di laurea. Due anni prima aveva vinto un regista russo, Victor Kossakovsky, con “Viva gli antipodi”, un documentario che dimostra che la terra va amata comunque, sia che uno viva nelle praterie argentine sia che uno viva nelle megalopoli come Shangai. Sono argomenti molto interessanti. Forse al grande pubblico sarebbe andato meglio vedere questi due film rispetto ad “Everest”.
Sarebbe bello che questi film e la montagna arrivassero anche in televisione: è un mezzo che non si sposa bene coi tempi della montagna, però arriva a un pubblico che magari non è quello del Cai o degli appassionati che già li conoscono. Non crede?
Da questo punto di vista vedo che le uscite in tv della montagna, come la fiction sul K2 o il reality del Bianco, non siano state egregie per alcuni errori di fondo. Però c’è un affinamento continuo. Credo che la capacità d mandare messaggi sia importante e credo che l’opinione pubblica prima o poi influenzerà la distribuzione.
Le dò un segno di speranza: quest’anno nascono due nuovi film festival, uno in Romania e uno in Corea del Sud. I coreani ci hanno detto che volevano fare un Festival legato non agli exploit alpinistici ma alla cultura di montagna. Abbiamo fatto ricerche e paragoni e abbiamo scoperto che il più antico, ovvero il nostro festival, è quello che riesce a esprimere meglio questo spirito. L’anno scorso abbiamo fatto numero zero e quest’anno ci sarà la prima edizione, con la presenza del sottoscritto e di Reinhold Messner.
La montagna come punto di incontro di culture molto diverse, in un momento delicato come questo per i rapporti internazionali?
Una cosa che ho sempre sottolineato, anche quand’ero presidente del Cai, è che i paesi islamici al 100% o quasi come il Pakistan o lontani dal nostro come il Giappone, chiamano “alpine club” le loro associazioni pur non essendo legati alle Alpi. E’ perchè le Alpi sono un riferimento di carattere culturale più che geografico. E su questo i festival possono aiutare molto.
Nell’alpinismo esistono ancora eroi come Cassin e Bonatti?
Penso che una Tamara Lunger che a pochi metri da un obiettivo straordinario come la prima invernale al Nanga Parbat riesce a dire no, vale più la vita in montagna che l’eroismo fine a sé stesso, consacra quello che diceva Cassin, cioè che l’alpinista migliore è quello che porta a casa la pelle.
Lo scrittore di montagna che ha più apprezzato nella sua vita?
Rolly Marchi con “Le mani dure” per me è una straordinaria opera, che riapre l’interesse per la montagna. E’ bellissimo. Io ho fatto la prefazione dell’ultimo libro su Rolly, “Vita trentina”, stampato da Nuovi Sentieri un anno prima che morisse. Vicino a lui metto Fosco Maraini con il suo libro sul Gasherbrum, un gioiello che consiglio a tutti di leggere. Venendo agli ultimi, quello di Paolo Paci sul Cervino mi è piaciuto moltissimo.
Il politico che secondo lei ha fatto meglio per la montagna. Se c’è stato, se deve ancora venire e in questo caso che cosa dovrebbe fare.
Qui a Trento quest’anno ricordiamo, ed è bene metterlo in rilievo, Michele Gordani, uno scienziato e geologo, ex consigliere centrale del Cai e senatore. L’articolo 44 della Costituzione, che prevede un’attenzione particolare per la montagna, è stato una sua iniziativa. Quando io andai a Bruxelles qualche anno fa come presidente del CAI per convincere gli europei a mettere la montagna come elemento di riferimento delle attività di coesione sociale dell’Ue, questo articolo mi è servito moltissimo. Eravamo fra i pochi in Europa ad avere una previsione di questo tipo. Oggi se la politica prevede un’attenzione speciale per la montagna, mentre prima la prevedeva solo per le isole e le aree poco popolate, lo si deve anche a Gortani e alla costituente del 46. Fu un uomo di Tolmezzo, in Carnia, oggi territorio triste e desolante in termini di spopolamento ma ancora di grande valore.
Per lei, personalmente, la montagna che importanza ha?
Ha importanza perchè mi ha sempre dato le giuste dimensioni. Per non diventare pieno di me stesso, per capire il rispetto verso quella che per qualcuno è solo un cumulo di sassi mentre per noi ha un valore ben diverso.
Per approfondimenti segnala questo link: http://www.nascitacostituzione.it/02p1/03t3/044/index.htm?art044-003.htm&2 dove c’è il discorso di Gortani per la montagna alla Costituente il 13 maggio 1947