Alpinismo

Mountain Wilderness: salvare l’alpinismo

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FIRENZE — Soccorsi sì, ma fatti soltanto da "alpinisti che si trovano casualmente nelle vicinanze". Corde fisse anche, ma ogni spedizione deve mettere e togliere le proprie anche se altri chiedono di poterle usare. Aumento delle royalties per scoraggiare la corsa agli ottomila, dove dovrebbe esserci solo una una spedizione per itinerario di salita. Questi i punti chiave del manifesto abbozzato da Mountain Wilderness per richiamare all’ordine il mondo dell’alpinismo, che secondo i garanti italiani dell’associazione rischia seriamente di perdere "significato, potenzialità formative e giustificazione”.

Il documento, per la verità ancora in bozza, è stato presentato e diffuso qualche settimana fa, al convegno Cai di Vallombrosa. Porta la firma dei garanti italiani di Mountain Wilderness: Fausto De Stefani, Sandro Gogna, Maurizio Giordani, Carlo alberto Pinelli, Ludovico Sella. Che dichiarano: “siamo consci di rasentare l’utopia, ma il destino dell’alpinismo dipende da una sua più rigorosa ridefinizione”.
 
"Sulle montagne asiatiche l’evoluzione della pratica dell’alpinismo sta assumendo connotati preoccupanti – scrivono i garanti di Mountain Wilderness -, allontandosi sempre di più dagli imperativi etici e dalle responsabilità ambientali che dovrebbero costituire la colonna vertebrale di questa appassionante attività".
 
Tra le più grandi minacce che pendono sulla testa dell’alpinismo ci sono, secondo l’associazione, i soccorsi spettacolarizzati e l’abuso di corde fisse."Va condannata con decisione ogni tentazione di spettacolarizzazione mediatica del soccorso – si afferma nel manifesto – soprattutto quando le operazioni messe in atto si dimostrano oggettivamente tanto sovradimensionate quanto inutili. E’ necessario prendere le distanze da chi, in preda a comprensibili ma non accettabili fibrillazioni emotive, o per meno nobili calcoli di personale visibilità, organizza con grande clamore, da paesi molto lontani dal campo di azione, improvvisate missioni di salvataggio".
 
Secondo Mountain Wilderness, che affronta salite himalayane in stile alpino è conscio di accettare un alto coefficiente di rischio e sa che potrà contare solo su sè stesso in caso infortunio. "Ma ciò non esime altri gruppi di alpinisti già bene acclimatati – precisano Pinelli e compagni -, che casualmente si trovassero nelle vicinanze, dal dovere di intervenire, anche qualora le operazioni di soccorso mettano a repentaglio il loro programma".
 
I garanti parlano poi dei problemi generati dall’uso delle corde fisse, che quest’estate hanno causato gravi tragedie. "Condannarle sarebbe sbagliato – dicono – ma è da condannare chi al termine di una spedizione evita di rimuoverle insieme ad ogni traccia del proprio passaggio. Non dovrebbero essere lasciate in eredità a successive spedizioni, anche qualora siano queste ultime a chiederlo espressamente". Altrimenti, spiegano i garanti, la vetta avrà ben poco valore e non dovrebbe nemmeno essere riconosciuta dalla comunità internazionale.
 
Sotto accusa anche l’uso di ossigeno, sia dal punto di vista sportivo che ambientale, per i problemi creati dall’abbandono delle bombole sull’itinerario di salita. E l’affollamento degli ottomila, che nel manifesto si auspica venga limitato in modo oculato. "Bisogna scoraggiare la corsa agli ottomila – scrivono i garanti – con iniziative culturali mirate a demistificare il loro prestigio, aumentando le royalties delle vette sovraffollate e diminuendo quelle delle cime minori".
 
Secondo Mountain Wilderness, la condizione ideale sarebbe quella di avere solo una spedizione su ogni itinerario di salita. Ma i garanti, ammettono di ragionare in modo teorico. "Non siamo così sprovveduti o disinformati sulla realtà di ciò che sta accadendo in Himalaya da non renderci conto che quanto stiamo sostenendo rasenta l’utopia. Ma questa consapevolezza non ci libera dal dovere morale di indicare quale potrebbe essere la strada da intraprendere per restiture all’alpinismo himalayano la sua dignità".
 
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Foto courtesy Montura.it

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