Storia dell'alpinismo

Mezzalama, la gara più alta e più antica delle Alpi: la leggenda nasce nel 1933

Una gara massacrante, eppure affascinante, assolutamente speciale, pressoché unica al mondo. Molti non esitano a definirlo una leggenda. Per quanto il linguaggio sportivo abbondi di iperboli e superlativi, nel caso del Trofeo Mezzalama i titoli d’eccellenza sono inoppugnabili. La “maratona bianca” che oggi si disputa da Cervinia a Gressoney, nell’aria sottile dei ghiacciai valdostani del Monte Rosa, passando dalla vetta del Castore e dal Naso del Lyskamm a oltre quattromila metri di quota, è la gara più alta delle Alpi. Essendo poi nata nel 1933, è anche la più antica competizione dello sci tuttora viva, anzianità che del resto ha pochi confronti in qualsiasi altro sport.

Eppure in settantacinque anni si è disputata sedici volte appena: sei edizioni negli anni Trenta, quattro negli anni Settanta, e sei ai giorni nostri. La rarità della gara si spiega con l’onere e le difficoltà che comporta organizzarla, aggravati dalla ricorrente incognita del tempo che più volte ha costretto ad annullarla. È anzitutto il “fattore Monte Rosa”, l’ambiente indomabile e imprevedibile dell’alta montagna, che fa del Mezzalama un evento raro e speciale. Ma per spiegarne la leggenda non può bastare il “terreno di gioco”.

Per svelare l’aura epica che ancora affascina i giovani del duemila è indispensabile scavare nella storia. Dobbiamo riportarci all’inizio degli anni Trenta dell’altro secolo, collegare la nascita del trofeo al clima di ardimento e di riscossa dell’alpinismo italiano nella stagione eroica del “sesto grado”, che a sua volta va inquadrata nel più generale, enorme sviluppo dello sport voluto dal fascismo. Al di là della retorica d’epoca, i successi sportivi dell’Italia del Duce sono clamorosi: alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932 gli azzurri strappano un numero di medaglie secondo solo agli Stati Uniti, nel 1934 vincono la coppa del mondo di calcio, che rivincono nel 1938 a Parigi, mentre Gino Bartali trionfa al Tour de France. Sull’onda dei successi, i giornali e la radio alimentano la popolarità di massa dei campioni sportivi, il primo star system.

Anche lo sci, che fino ad allora è stato una pratica elitaria e borghese, funzionale e subalterna all’alpinismo, alla fine degli anni Venti si emancipa e diventa uno sport autonomo: lo sci da pista è più ludico e gradito alla massa dello scialpinismo che rimane una faticaccia rischiosa. Rinomate località di villeggiatura estiva si trasformano in stazioni invernali che organizzano gare di sci alpino e si attrezzano con appositi impianti di risalita – slittovie e funivie. L’Italia mussoliniana si pone all’avanguardia inventando ad hoc Sestriere e Cervinia.

Mentre si diffonde lo sci, il fascismo impone a ogni attività di montagna un netto carattere sportivo e popolare. Nel 1929 il Club Alpino Italiano si rafforza assorbendo d’imperio tutte le altre associazioni minori e diventa una federazione sportiva aggregata al Coni, che deve così trasferirsi da Torino a Roma. Poco dopo Mussolini, che è il primo a confondere gli alpinisti con gli alpini, affida il Cai al bolognese Angelo Manaresi, decorato della Grande Guerra, che è anche presidente dell’Associazione Nazionale Alpini e per un certo periodo viceministro della guerra. Con lui, che governerà il Cai fino alla caduta del regime, l’esaltazione dei campioni del sesto grado si intreccia stabilmente con il mito delle penne nere, due facce di un’unica concezione dell’eroismo cara al regime.

L’ideologia del Club Alpino paramilitare è dichiarata senza mezzi termini sul quindicinale milanese Lo Scarpone. Nell’articolo-manifesto Sci: passione di folle del 1° marzo 1932, Odo Sciamengo scrive: “Le facilitazioni che il Governo e le Autorità militari largiscono agli sciatori sono date appunto con il preciso intento di fare negli anni che verranno, della nostra barriera alpina, non una semplice espressione geografica o figura retorica, ma il principale elemento del nostro ordine militare. (…) Ancora troppi sciatori usano gli sci per semplice svago e ricreazione. Occorre che le competizioni sportive e specialmente le salite invernali entrino nell’abitudine della massa. Necessita cambiare le mete e anziché rigare di piste parallele i soliti affollatissimi campi domenicali, preferire la rude competizione che scaglia l’uomo verso il traguardo e amare la nuda montagna nevosa dei confini, dove spira il vento di libertà che è nato dal sangue e dal dolore.” Leggi, la Grande Guerra, epopea degli alpini.

Ecco perché non può essere sufficiente ricondurre tutto all’esempio del pioniere dello scialpinismo Ottorino Mezzalama a cui è intitolata la gara. Di lui, nato a Bologna nel 1888 e divenuto torinese dopo la laurea in Scienze Commerciali, si sa che praticò ginnastica, scherma e canottaggio, ma si tramandano soprattutto notizie sull’intensa attività in montagna. Durante la Grande Guerra, egli si distinse come istruttore degli alpini sciatori e negli anni Venti si dedicò all’esplorazione sciistica della catena alpina, tracciando un’ideale haute route invernale delle Alpi, dalle Liguri al Brennero. Mentre si accingeva a completare il tragitto sognato, il 23 febbraio 1931 restò vittima di una valanga in Alto Adige. Per ricordarlo degnamente, gli amici torinesi del Club Alpino Accademico e dello Ski Club Torino pensarono di organizzare una manifestazione senza precedenti.

Nel 1932 si progettò una staffetta sulle modeste cime della Val Susa, poi naufragata per mancanza di neve. Prese così quota l’anno dopo il più ardito e affascinante tracciato sui ghiacciai del Monte Rosa, attraverso il Castore e il Naso del Lyskamm. Ci furono in seno al Cai accese discussioni, sia tecniche, sulle difficoltà e i rischi ambientali di un percorso d’alta montagna, sia ideologiche, sulla liceità della competizione, poco in linea con le tradizioni del Club Alpino. Il progetto fu messo a punto dall’ingegner Piero Ghiglione, infaticabile esploratore ormai cinquantenne, ben conscio dei risvolti internazionali. Gli diede man forte il quarantacinquenne Pietro Ravelli, detto Pipi, contitolare con il fratello e noto alpinista Cichìn (Francesco) di una bottega di articoli per lo sci e l’alpinismo divenuta storica a Torino: si diffondevano allora i primi sci con le lamine metalliche.

I due, con il giovane Adolfo Vecchietti, 25 anni, corsero poi la gara per lo Ski Club Torino. Quanto alle riserve sull’agonismo, nell’acceso fervore sportivo allora in auge, bastò un astuto sofisma: la massima velocità per l’alpinista è anche sinonimo di sicurezza, poiché abbrevia l’esposizione alle insidie dell’alta montagna. Il comando delle truppe alpine aderì fornendo attrezzature logistiche e il servizio radio. Decisivo fu il patrocinio del quotidiano La Stampa che fornì mezzi di trasporto e trasformò la gara in un evento.

Devono passare ben trentatrè anni prima che rinasca l’indimenticabile gara. Trentatrè come si sa è una marcia tipica delle fanfare alpine, ma per la nostra storia è un periodo lunghissimo, in cui le cose sono radicalmente cambiate. Dopo il trauma della guerra e il crollo del fascismo, c’è stata la dura fase della ricostruzione, seguita dal boom economico e dalla ventata del sessantotto. Sulle Alpi i giovani rifiutano la retorica eroica e riscoprono la “libera”; aprendosi ai modelli d’oltralpe e dei californiani sperimentano il “settimo grado”. Lo sci è diventato uno sport di massa che porta nelle valli un crescente benessere, ma ne cambia pure la faccia, non sempre in meglio. Lo sci agonistico, con i successi di Gustavo Thoeni, comincia un ciclo positivo che darà vita alla “valanga azzurra”. Lo scialpinismo invece sopravvive come sport di nicchia: a Torino grazie ai corsi della Sucai e alla tradizione dello Ski Club, in Valle d’Aosta grazie alle “settimane scialpinistiche” di Toni Gobbi, la guida di Courmayeur che muore nel 1970 sotto una valanga in Alto Adige, come Ottorino Mezzalama: è lui il suo vero erede che realizza nel dopoguerra l’ideale delle hautes-routes estraneo all’agonismo delle gare, che non sono
affatto sparite.

Mentre in Val Brembana è risorto il Trofeo Parravicini, nato nel 1936, negli anni Sessanta si diffonde il fenomeno dei rally, un insieme di prove di destrezza (discesa con ferito, calata a doppia su fungo di ghiaccio, costruzione igloo…) ideato nel 1950 dal radiologo parigino Raymond Latarjet per il Club Alpin Français. Sul modello francese, il Fior di Roccia di Milano organizza dal 1960 il Rally scialpinistico italiano, lo Ski Club Torino il Rally della Mautino e la Ugolini di Brescia il Rally dell’Adamello, entrambi dal 1961. Seguono nel 1965 il Rally delle Tre funivie nel Lecchese e nel 1968 il Rally del Bernina.

Questo il clima in cui l’idea più volte vagheggiata dai veterani alpini di ridar vita al Trofeo Mezzalama diventa realtà, per la tenacia del direttore dell’azienda per il turismo di Gressoney, Romano Cugnetto. Il 23 febbraio 1970, anniversario della scomparsa di Mezzalama, Cugnetto convoca una riunione da cui nasce un imponente comitato presieduto dal vincitore del 1936 Francesco Vida, ora generale della riserva: gli alpini assicurano massicci aiuti logistici con tre elicotteri, l’Aeronautica il servizio meteo, la Valle d’Aosta – ora Regione Autonoma – il sostegno finanziario.

La settima edizione del Mezzalama, rinviata a giugno prima per maltempo, poi per il rischio valanghe, si svolge finalmente l’11 settembre 1971 sul percorso da Plateau Rosà alla Capanna Gnifetti. La gara è dominata dai fratelli di Asiago Gianfranco, Aldo e Roberto Stella del Centro Sportivo Esercito di Courmayeur nel tempo record di 3 ore, 9’, 39”.

Nell’edizione 1973 rivincono gli alpini e la supremazia delle cordate militari resta schiacciante: il Mezzalama non è più la frontiera dello scialpinismo, ma una gara ibrida dominato da fondisti di professione che sfidano le intemperie d’alta montagna in tutine e sci stretti. L’edizione 1975, che vale come campionato mondiale di scialpinismo, richiama ben 56 squadre partecipanti, un record. Nel vano tentativo di far chiarezza tra professionisti e amatori vengono suddivise in tre categorie: militari, guide e civili. Ma la gara che conta resta quella dei militari.

Dovevano passare anni prima che in Valle d’Aosta si riaccendesse l’entusiasmo, la voglia di riaffrontare la sfida. E in montagna dovevano accadere fatti nuovi che, nel corso degli anni Ottanta, minano vecchi pregiudizi contro l’agonismo. Mentre a Bardonecchia nel 1985 nascono le gare di arrampicata, nel Beaufortin presso Albertville si disputa la prima Pierra Menta, nuova formula di rally a saliscendi, con canali ripidi, che dura quattro giorni. Per anni gli agguerriti padroni di casa vengono battuti dal valtellinese Fabio Meraldi, prima con Adriano Greco, poi con Enrico Pedrini, un ex fondista. Intanto nel Vallese nel 1984 è risorta la Patrouille des Glaciers, la traversata Zermatt-Verbier sperimentata dagli alpini svizzeri durante la guerra sul modello del Mezzalama, ma troncata alla terza edizione nel 1949 dalla morte di tre uomini in un crepaccio. Mentre gare e campionati di scialpinismo fioriscono sulle Alpi, sui Pirenei e perfino sui Tatra, la Dynafit inventa un sistema di attacchi superleggeri con appositi scarponi in grado di competere con gli sci stretti dei fondisti.

L’aria nuova viene fiutata dal Consorzio Turistico del Monte Rosa che, convinto del primato del Mezzalama, con il sostegno della Regione Valle d’Aosta crea nel 1993 una fondazione per ridar vita alla storica gara fin dal 1995. Per affrontare la sfida con le migliori garanzie il presidente Luciano Caveri e il direttore Adriano Favre, guida di Champoluc, puntano su uno staff di guide alpine del Monte Rosa, professionisti esperti, in grado di assumersi responsabilità. Le difficoltà a coprire il budget consigliano un rinvio al 1997, quando ai fondi regionali si sommano quelli di sponsor propiziati dal manager Silvio Scaglia, che resterà convinto sostenitore della gara.

Il moderno Mezzalama risorge alle cinque del mattino del 3 maggio – finalmente una splendida giornata di sole – quando scatta dalle piste di Cervinia il plotone di 39 squadre (una di donne) alla volta di Plateau Rosa. Le cordate, secondo tradizione, restano da tre elementi, che ora partono insieme, non più scaglionate come nel passato. Ma soprattutto affrontano subito un supplemento di 1500 metri di dislivello per congiungersi al tragitto classico. Anche l’arrivo si sposta dal Gabiet fin giù a Gressoney-la-Trinitè. Con il duplice allungamento, giustificato dai progressi dei materiali e delle prestazioni, la “maratona bianca” attraverso la vetta del Castore e il Naso del Lyskamm diventa una traversata perfetta per gli atleti e più fruibile dal pubblico.

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