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Nardi e la Revol a 6450 metri del Nanga, racconto e immagini della salita

Daniele Nardi in tenda (Photo Daniele Nardi)
Daniele Nardi in tenda (Photo Daniele Nardi)

SKARDU, Pakistan — “Tre giorni. Siamo partiti il 26 gennaio mattina per percorrere la traccia che porta al classico campo 1 della via Kinshofer ma poi abbiamo deviato a destra per attraversare il ghiacciaio e poi su verso la seraccata, dritti sotto di lei. Un labirinto di crepacci e seracchi da aggirare e salire per 1000 metri. Appena c’è abbastanza spazio per una tenda, decidiamo di fermarci a 5200 metri coperti da un seracco. La notte passa veloce ma prepararsi per la salita è faticoso”. Con queste parole Daniele Nardi racconta la salita di acclimatamento compiuta insieme ad Elisabeth Revol nei giorni scorsi sullo sperone Mummery del versante Diamir al Nanga Parbat. Ecco alcune belle immagini della scalata.

“Alle 9.00am del 27 gennaio riusciamo a partire e ci ritroviamo nella seconda parte del ghiacciaio – scrive Nardi -. Poi verso sinistra lungo un canale misto di neve ghiaccio e roccia. Saliamo fino a tarda sera e quando non riusciamo a trovare un posto dove poter piazzare la tenda siamo costretti a ridiscendere verso una spalletta dove intagliamo una piazzola nel ghiaccio ed è già notte, siamo a circa 6000 metri. La mattina del 28 gennaio impieghiamo 3 ore per prepararci e tale è il freddo che è impossibile rispettare i piani di tempistica. Partiamo di nuovo alle 9,00am invece che alle 6,00am per salire la parte più tecnica dello sperone. Arriviamo tra i 6400 metri circa quando la linea di salita ci costringe a deviare sulla sinistra per raggiungere la cresta. Il vento si fa forte, la motivazione è alta ma bisogna fare i conti con i tempi, le distanze e la nostra scarsa acclimatazione”.

“Freddo, vento, stanchezza 2300metri sotto i piedi con uno stile leggero ed essenziale – continua l’alpinista di Sezze -, la traccia da battere, la neve fresca che ci ha tolto energie preziose, il cambiamento meteorologico anticipato ci hanno indotto a scendere. Sento uno strattone alla corda, in automatico mi butto a terra e ficco la piccozza nel ghiaccio. La corda è in tensione, Elisabeth non c’è più ma vedo una luce rimbalzare tra i due bordi di un crepaccio e venirne fuori. Avevo appena saltato un buco bello largo nel ghiaccio quando Elisabeth prova a passarlo dove sembrava più stretto. La neve gli si apre sotto i piedi senza preavviso e scompare nel vuoto. Momenti di lucidità estrema mentre tengo in tiro la corda. Pochi secondi e vedo la luce della lampada frontale sbordare dal crepaccio e illuminarmi. Da professionista qual è Elisabeth si mette subito in contrapposizione sui lati del crepaccio e ne viene fuori senza che io debba fare alcuna manovra. Sono circa le 23.00pm, ormai il tempo non ha più senso, abbiamo deciso di scendere fino al campo base e siamo nel tratto basso del ghiacciaio che sostiene lo sperone Mummery, una serie infinita di crepacci, seracchi, enormi case di ghiaccio e la falce glaciale che copre tutto li in alto. Il grande seracco, pericolo per questa parte della salita dove i crolli nei giorni scorsi si sono accavallati”.

Nanga Parbat (Photo Daniele Nardi)
Nanga Parbat (Photo Daniele Nardi)

“Difficile da spiegare – conclude l’italiano -, una scelta saggia a vedere il vento che spira li su oggi, anche se il sole splende, oggi le parole non mi escono, mi sono sentito nella storia, cavalcare quel crinale, provarci almeno, essere fermato dal vento, forse da altro. Essere riusciti a tornare al campo base dopo essere sia io che Elisabeth più volte entrati in profondi crepacci. Il peso dello zaino, lo sperone, la valanga che ci ha solo sfiorato ma che abbiamo sentito sulla pelle. Le parole ora non mi escono, forse perché troppo a caldo non lo so ma forse bene cosi. Comunque vada è una delle cose più belle che abbia mai provato a fare”.

Foto e info http://www.danielenardi.org

 

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