Alpinismo

Moro: un inferno bianco mi attende

immagine

BERGAMO — "In un’invernale tutto si amplifica all’ennesima potenza. Infernali tempeste di neve, venti a 200 chilometri orari, temperature a 40 gradi sottozero". Così Simone Moro parla della sua “The North face Baltoro winter expedition”. Partirà la vigilia di Natale, diretto verso Broad Peak e K2. E sarà da solo.

Scalare un ottomila in invernale è una sfida che non ha paragoni. Non ci sono spit, gradi, traversate o nuove vie che tengano. Le condizioni generali in cui viene fatta chiedono un livello di resistenza, tecnica, preparazione e volontà che supera il limite umano nel 95% dei casi. Tant’è che dei 14 ottomila della Terra, solo 8 sono stati saliti d’inverno, tra il 1980 e il 1988. Le firme di queste scalate sono quasi tutte polacche. Tranne una, ancora Simone Moro sullo Shisha Pangma, il 14 gennaio 2005 insieme al Polacco Piotr Morawski.
 
Ma per capire meglio quale sia il gelido e terribile significato di quelle che per noi sono solo parole, ma che per Simone Moro tra qualche giorno saranno realtà, abbiamo chiesto direttamente al protagonista di spiegare che cosa vuol dire.
 
Moro, ci spiega di preciso che cosa significa affrontare un’invernale sugli ottomila? Basti dire che allo Shisha la temperatura più alta era di 17 gradi sottozero. Tre settimane fa, dal Karakorum mi sono arrivate notizie che a 6000 metri c’erano -39 gradi. "Invernale" significa che tutto si amplifica all’ennesima potenza, e che le antenne non le devi alzare solo durante la scalata ma devi sempre soffrire. Operazioni semplici, come l’igiene personale, la preparazione del materiale, diventano complicatissime.Hai sempre, sempre i guanti. E magari le moffole, non quelli con le 5 dita, anche al campo base, dove in estate si gira anche in maglietta. Preparare da mangiare non è semplice, i corsi d’acqua sono ghiacciati e devi spaccare e sciogliere neve e ghiaccio. In alta quota servono i fornelli a benzina. Veramente un altro pianeta.
 
Come sono le condizioni in alta quota? D’inverno c’è un vento che fa paura, che abbassa ancor di più le temperature percepite. Un vento che va tranquillamente oltre i cento chilometri orari e che, quando c’è tempesta, arriva anche a duecento all’ora. E quand’è così sulla montagna non resiste niente e nessuno, i campi vengono distrutti. Il Karakorum, poi, è ancora più freddo dell’Himalaya, ecco perchè i 5 ottomila non sono ancora stati saliti nonostante vari tentativi di gruppi tra i più forti alpinisti. La differenza è come scalare un ottomila con o senza ossigeno, molto più difficile.
 
I giorni sono più corti? Sì, ci sono meno ore di luce quindi la fase attiva è ridotta ad uno spazio di tempo minore. Non si può partire a mezzanotte dal campo, bisogna farlo quando il sole è arrivato se no crepi di freddo, solo che così ovviamente devi salire più veloce.
 
Un vero inferno. Perchè continua a scegliere le invernali? E’ l’unico gioco leale rimasto nell’himalaysmo, oggi, accanto all’apertura di vie nuove. Una solitaria come questa è quasi impossibile, una vera sfida. In altre stagioni le solitarie sono improponibili perchè ci sono sempre altre spedizioni, d’inverno invece non si bara. Non c’è nessuno che t’aiuta, nessuno che ti fa la traccia, nessuno che ha già montato campi alti, nessuno con cui dividere gli sforzi. E’ difficile ma è così che io vedo l’alpinismo.Ogni volta che entro in queste invernali rivivo l’alpinismo che sognavo e ritrovo l’himalaya di cinquanta, cento, mille anni fa, correndo gli stessi rischi dei primi esploratori.  Non mi interessa fare collezioni di montagne come di francobolli. Ho poche possibilità, mi costa molti soldi, ma sono i miei e sono su una montagna che vivo come dico io. Che non "imbragano" gli altri.
 
Come si sente alla vigilia di una spedizione così importante e rischiosa?
E’ una delle rarissime volte che sono poco nervoso, poco teso. Mi sento lucido e consapevole, probabilmente anche per la meticolosa preparazione – atletica e psicologica – che ho affrontato negli ultimi sei mesi. Per dare un parametro, facevo 140 km di corsa alla settimana e continui allenamenti di arrampicata. Forse, è anche perchè ormai ho fatto 7 spedizioni invernali tra le Ande e l’Himalaya e so cosa aspettarmi. So quanto siano basse le possibilità di riuscita e le affronterò in maniera sportiva. Il Broad Peak è una montagna difficile, ma perlomeno a differenza
dei Gasherbrum non dovrebbero esserci troppe insidie legate a crepacci o seracchi che ti vengono in testa, che sono le cose che mi fanno più paura.
  
Sarà completamente da solo? Con me ci sarà un pakistano che si occuperà di girare delle immagini e scattare fotografie. La ritengo una cosa importante perchè non c’è quasi nulla in letteratura che racconta le invernali con libri o film. Avevo chiesto a 5-6 fotografi e registi, anche polacchi, di accompagnarmi, ma quando realizzavano ciò che significava questo viaggio, rinunciavano. E così ho ingaggiato un pakistano: è un alpinista molto in gamba, ha già salito tutti e 5 gli ottomila del Pakistan e, ci tengo a sottolinearlo, non sarà un portatore d’alta quota ma un compagno di cordata che si occuperà delle immagini. Mi seguirà fin dove vorrà, fin dove decideremo insieme.
 
Quante possibilità ha di riuscire nell’invernale di entrambe le montagne? Direi il 10 per cento. Di riuscire solo sul Broad, invece, intorno al 20 per cento. Tutto dipenderà dalle condizioni meteorologiche.
 
Com’è il programma dei primi giorni di viaggio? Partirò la Vigilia, e farò Natale in cielo. Oggi come oggi, però, non so ancora come arrivare al base. Avevo mandato su del materiale quando le condizioni erano migliori, ma si è fermato ad Urdukas a 3 giorni di cammino dal base. Ora vedrò, se trovo dei portatori attrezzati salirò con loro, altrimenti valuterò il noleggio di un elicottero dell’esercito. In quel caso dovrò risolvere il problema dell’acclimatamento; non è escluso che vada a trovare gli amici polacchi al Nanga Parbat.
 
Cosa pensa delle nomination al Piolet d’Or 2006? Secondo me sono meritevoli. Riguardo l’assenza dell’alpinismo italiano, non penso che "faccia ridere" come ho letto su qualche blog (mi piacerebbe ricordare a chi scrive queste cose quello che ho vissuto e quello che si vive, in generale, in alta quota). Ma è un alpinismo che va "in fila", che sta dietro. Con o senza portatori o ossigeno, si tratta sempre di vie normali che non meritano spazio come "salite storiche". Io forse avrei potuto sperarci se avessi realizzato la traversata senza ossigeno. In passato avrebbero potuto valere la nomination la mia invernale Shisha Pangma o la via nuova al Baruntse, con cui ho vinto il campionato d’alpinismo in Russia, paese da dove provengono i nominati di quest’anno.
 
Qualcuno ha definito questa sfida invernale a Broad Peak e K2 "una delle più difficili e audaci degli ultimi 20-30 anni". Magari, l’anno prossimo, finirà tra i nominati del Piolet d’Or. Forse, anche riuscendo nell’invernale, non mi inserirebbero, ma semplicemente perchè – ricordo – stiamo parlando di un premio francese. Ma non importa, non vado mica al Broad Peak per quello, anche se non nascondo che un giorno mi piacerebbe rientrare nelle nomination…
Il Broad Peak (8.047 metri), Moro l’ha già salita nell’estate 2003 in poco più di 24 ore, ma nessuno l’ha mai scalata d’inverno, nonostante due tentativi nel 1987/88 e 2002/2003. Il K2 (8.611 metri) è considerata a livello planetario il simbolo delle difficoltà e della bellezza delle montagne. Nel 2003 Moro ha interrotto il suo tentativo a quota 7600 metri per le avverse condizioni meteo. Anche qui, nessun tentativo di invernale è mai andato buon fine.
 
 
Sara Sottocornola

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close