Gente di montagna

A tu per tu con Nirmal Purja: tutto quello che ancora non abbiamo capito di lui

Il più controverso personaggio dell’odierno alpinismo d’alta quota si racconta senza filtri a margine della rassegna “Chies e le sue montagne”, in Alpago: dalle ragioni che lo spingono a superarsi in montagna a quelle che spingono gli altri a cercare di fermarlo

You know, at the top is always windy”. Sorride, Nirmal Purja, mentre pronuncia questa frase. Eppure un velo di malinconico sconforto sembra adombrargli il viso. Perché è vero: in vetta il vento soffia sempre. Ma forse un vento così forte, come quello soffiatogli addosso negli ultimi tre anni, Nims non se lo meritava. Prima l’accusa di aver tagliato le corde fisse nella discesa, durante l’invernale al K2 del 2021. Accusa che, invero, ne sottintendeva un’altra: l’aver cagionato, per questo stesso motivo, la morte dell’amico Ali Sadpara, impegnato sulla stessa vetta insieme a John Snorri e Juan Pablo Mohr. I corpi dei tre sono stati ritrovati sei mesi più tardi, aggrappati, guarda caso, proprio alla corda fissa mai veramente tagliata dai nepalesi. Nemmeno il tempo di un sospiro di sollievo, perché ad emergere è una presunta indagine per molestie sessuali. Indagine che, di fatto, non esiste: nessun procedimento legale è mai stato portato avanti ai danni di Nirmal Purja. Eppure è bastata una serie di articoli basati su dei pettegolezzi affinché il quarantaduenne nepalese finisse al centro di un’autentica gogna mediatica, capace di oscurarne quasi per intero i successi.
E forse le ragioni di tale accanimento sono da ricercarsi proprio nella sua fulminante carriera, difficile da inquadrare per gli standard alpinistici occidentali. Nirmal non è uno Sherpa, ma prende le loro parti come se lo fosse. Nirmal non è una guida alpina, ma in un tempo tutto sommato breve è diventato un leader esperto, nel settore imprenditoriale delle spedizioni himalayane da sempre appannaggio di grosse agenzie americane o europee, diventando più richiesto di quanto lo siano la stragrande maggioranza delle guide occidentali.
Nirmal ha iniziato ad andare in montagna dopo i trent’anni e gliene sono bastati soltanto cinque per prepararsi a collezionare in poco più di sei mesi quei 14 Ottomila che valgono, per tutti gli altri alpinisti, una vita intera di sforzi. Nirmal, poi, sa bene ciò che vuole. E sa anche che cosa occorre fare per ottenerlo. Un’attitudine da vincente che cozza contro l’umiltà del “buon” alpinista che molti gli rinfacciano di non possedere. Nonostante questo, Nirmal Purja è stato il primo – e spesse volte l’unico – a prodigarsi in operazioni di soccorso che avrebbero potuto mandare a repentaglio i suoi stessi obiettivi, perché “non c’è obiettivo più importante di una vita umana”.
Che cosa ci dà fastidio, allora, di questo personaggio? Perché non riusciamo a riconoscerne pienamente i meriti, senza per forza dover scavare nella sua vita – personale e professionale – alla ricerca di una qualche colpa? Per capirlo l’abbiamo incontrato ed intervistato, a margine di una serata organizzata a San Martino d’Alpago nell’ambito di Chies e le sue montagne: la rassegna che ormai da 24 anni ospita nelle diverse frazioni della valle eventi a tema alpinistico, grazie all’impegno di un’organizzazione rodata e capace di far sentire a casa persino Nims.

Per primo hai dato nome e voce a quegli Sherpa che da sempre cooperano nel successo delle ascensioni himalayane. Pensi che gran parte delle accuse che hai ricevuto siano legate a una sorta di “tirannia” occidentale che ancora esiste in Himalaya?

«Al cento per cento. Non c’è dubbio su questo. Ma non credo riguardi soltanto quello che ho fatto in termini alpinistici o per portare avanti i nomi degli Sherpa. Penso che quello che ha ferito davvero la stragrande maggioranza degli occidentali, o di chi mi critica in generale, sia il mio essermi dato al business, interrompendo gli ingranaggi di un meccanismo ormai collaudato, che vedeva gli occidentali protagonisti e i nepalesi ai margini. E tutto questo l’ho portato avanti in prima persona, mettendoci la faccia, impegnandomi insieme ai membri del mio team. Ho capito che quando si parla di business, e dunque di soldi, le persone sanno diventare davvero crudeli e dimenticano quel principio di umanità che dovrebbe riguardarci tutti. Dimenticano che tutto è impermanente. Dimenticano che un giorno i soldi che tanto venerano dovranno essere lasciati qui sulla Terra, perché il sudario non ha tasche».

Ci si sofferma molto a deprecare il tuo carattere troppo baldanzoso e poco ad evidenziare l’abnegazione che hai dimostrato nelle operazioni di soccorso. C’è stato l’Annapurna, ma anche il Kangchenjunga, dove fondamentalmente ti sei mosso da solo per tentare di salvare la vita di due alpinisti.

«Non credo vi sia alcun alpinista al mondo capace di sacrificare se stesso nel modo in cui l’ho fatto io. E vorrei non essere frainteso in questo, vorrei mettere in prospettiva quello che sto dicendo. Ho servito nei Gurkha e nelle forze speciali del Regno Unito per una vita intera, mi mancavano sei anni alla pensione quando mi sono congedato per il progetto dei 14 Ottomila, vendendo la mia casa e investendoci tutti i miei risparmi. Sembra una scelta folle, però mettere tutto me stesso nel progetto significava esattamente questo e niente di meno. Ma quando si tratta di soccorrere qualcuno è richiesto lo stesso tipo di impegno, mettere se stessi per intero a servizio di chi è in difficoltà. L’ho fatto con Wui Kin Chin in Annapurna, l’ho fatto con Biplab Baidya e Kuntal Karar sul Kangchenjunga, ben sapendo che tardare sulla tabella di marcia della mia spedizione poteva voler dire fallire. E fallire per me, arrivato a quel punto, significava aver perso un lavoro per niente, una casa per niente e tutti i miei risparmi. Per niente? Per una vita! Per salvare una vita. Questi sono i fatti e credo che le persone dovrebbero guardare i fatti, non ascoltare le parole.
Quando servivo nei Gurkha o nelle forze speciali e finivamo sotto attacco, non ho mai lasciato indietro nessuno, piogge di proiettili o granate che ci fossero. Stessa cosa in montagna. Quando accadono cose come queste, quando ci sono in ballo la vita o la morte, è il vero carattere di una persona ad emergere. E questo è il mio carattere, checché ne dicano gli altri».

Che cosa di quanto hai imparato durante la tua carriera militare ti ha aiutato nell’alpinismo?
«Prima di tutto – sembrerà una frase fatta ma non lo è – ho imparato a non mollare, nonostante ogni cosa intorno a me mi spingesse a fare il contrario. Sono stato il primo soldato Gurkha a entrare nell’SBS britannica, qualcosa che fino a quel momento era considerata inconcepibile. Ricordo che quando chiesi al mio superiore il permesso di poter tentare le selezioni, lui mi rise in faccia. E me lo diede, proprio perché pensava che tanto non ce l’avrei fatta. Ero costantemente scoraggiato dagli altri. Eppure, grazie a quei momenti, ho imparato a pormi un obiettivo e a non demordere, come già avevo fatto da adolescente, tentando le selezioni per entrare proprio nei Gurkha. Quando poi entrai nelle forze speciali imparai a sviluppare alcune capacità essenziali anche in alpinismo: a lavorare in squadra e a pianificare le cose meticolosamente, tanto per cominciare. Ma anche ad essere un buon gregario per poter essere un buon leader. Una cosa non deve mai escludere l’altra e per questo le spedizioni in solitaria non m’interessano: prendersi cura dei componenti della squadra, progredire insieme, sono valori fondanti per la visione di alpinismo che ho io. E il successo condiviso che ne consegue non ha prezzo. Nell’esercito ho poi imparato a capire quando occorre fare un passo indietro e come operare in ambienti difficili, prendendo la decisione più giusta nonostante la tensione e le criticità che ti circondano. È chiaro che quando impari queste cose pensi di essere invincibile».

Lo pensi, ma non lo sei.
«Ed è esattamente a questo punto della mia vita che è arrivata la montagna. Prima di tutto mi rese umile, mi fece capire che il mio posto nel mondo non era al vertice. E proprio nella grandezza di quei paesaggi, nel rispetto che dovevo averne, imparai ad essere me stesso, a sentirmi più vivo che mai soltanto quando vi ero immerso. Ora sono arrivato ad un punto dove, in ogni altro contesto della mia vita, mi sento di esistere, ma non mi sento vivo. Solo in montagna, alle alte quote, mi sento vivo. Ogni mia sfida, anche la più straordinaria o irriverente agli occhi del mondo, parte da questa passione, per me insostituibile».

Ogni tua sfida parte dalla tua passione, ma ha anche altri scopi, più lungimiranti: prendiamo ad esempio il tuo ultimo progetto, quello di scalare per la terza volta i 14 Ottomila e le Seven Summits.

«Sì, il tutto per finanziare la mia fondazione e i suoi progetti raccogliendo 1.138.000 sterline, che, convertite in piedi, equivalgono all’altitudine totale dei 14 Ottomila. La Nimsdai Foundation ha come obiettivo principale quello di coprire vari aspetti nella vita della popolazione nepalese. Se uno Sherpa muore in montagna, per esempio, ci assicuriamo che i suoi figli ricevano quote di denaro sufficienti per proseguire negli studi. Cerchiamo poi di sensibilizzare la popolazione alla sostenibilità ambientale attraverso azioni concrete, soprattutto nei campi base, con progetti di pulizia e cura del territorio che finora hanno coinvolto le montagne più massivamente frequentate, come l’Everest e il K2. Non nascondiamoci: questo progetto è ambizioso e “pulire una montagna” da cima a fondo richiede anni di sforzi e ovviamente costi notevoli».

Quale di questi progetti ti sta più a cuore e qual è invece il più urgente?
«Sai, l’esercito ha avuto un grande ruolo nei miei successi, come ti ho già raccontato. In un’ottica di restituzione, ho pensato di proporre l’avventura in alta quota come una sorta di terapia: soldati menomati o con traumi da stress post-traumatico possono trovare sollievo in montagna. Il più urgente penso sia invece arrivato alla sua fase conclusiva, verrà ultimato la prossima primavera: si tratta della Porter House a Lobuche, un piccolo villaggio nella regione di Khumbu in Nepal, che è diventato una tappa obbligata per le spedizioni che vanno al Campo Base dell’Everest. Attualmente però a Lobuche non c’è posto per i portatori, che devono depositare i bagagli lì e tornare a piedi per circa una decina di chilometri a Pheriche, dove la stragrande maggioranza di loro abita. Mentre i clienti riposano già a Lobuche, loro devono dormire a Pheriche, risalire a Lobuche il giorno successivo e partire con loro alla volta del Campo Base. Questa nuova struttura consente loro di risparmiare circa 20 chilometri di fatica, che in una spedizione non sono per niente pochi».

Tanti hanno visto con sospetto anche questo progetto.
«Hanno detto che volevo costruire un albergo per le spedizioni che organizzo io. Ma va bene così. You know, at the top is always windy».

Tags

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close