Ritrovati i corpi di Farronato e Caputo. Il racconto, e le foto, di Valter Perlino
La conferma della tragedia è arrivata dalla squadra di soccorso che ha raggiunto in elicottero i 5200 metri del campo 1 del Panbari Himal

La frase che non avremmo mai voluto leggere è arrivata. “Li abbiamo trovati. Dormivano, in tenda, sotto a due metri e mezzo di neve compatta. Sono sceso ora dall’elicottero, le salme sono davanti a me”. Così scrive Valter Perlino alle 8.29 di martedì 4 novembre, le 13.04 in Nepal.
Stefano Farronato e Alessandro Caputo, il primo di Bassano del Grappa e il secondo di Milano, impegnati in un tentativo di salire il Panbari Himal, 6887 metri, una cima poco nota che si alza a nord-ovest del Manaslu, non sono riusciti a sopravvivere a una settimana di gelo e di stenti a 5200 metri di quota.
Erano rimasti bloccati nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, in una tenda al campo 1 della montagna, da una violenta perturbazione (la tempesta Moncha) che è arrivata 48 ore prima di quanto annunciavano le previsioni meteo. Non sapremo mai – ma ormai poco conta – se a ucciderli siano state la mancanza d’aria, la fine delle bombolette di gas essenziali per sciogliere la neve e per bere, o semplicemente il gelo.
Valter Perlino, che era tornato da solo al campo-base nel pomeriggio di lunedì 27, è riuscito a comunicare con Alessandro e Stefano fino a giovedì 30 ottobre, grazie agli sms del sistema Garmin Inreach. Poi sul Panbari Himal è tornato il silenzio.
Sabato, un elicottero e una squadra di soccorritori professionali hanno raggiunto la zona da Kathmandu, e Valter Perlino è stato evacuato a Samagaon insieme ai tre Sherpa che assistevano la spedizione dal campo-base.
Lunedì mattina, un volo sui pendii del Panbari Himal non è riuscito a individuare né la tenda, sepolta da metri di neve, né tantomeno i suoi occupanti. Il volo di martedì è stato decisivo. A rendere possibile l’intervento ha contribuito in maniera decisiva Paolo Nugari, console onorario del Nepal in Italia.
Valter Perlino, salvato da un infortunio al piede
Lunedì, al telefono da Samagaon, 3530 metri, villaggio alle pendici del Manaslu, Perlino mi ha raccontato gli eventi dei giorni precedenti. “Dai 4800 metri del campo-base siamo saliti ai 5200 del campo 1 e ai 5800 del campo 2, dove l’ascensione diventa impegnativa”.
Qui, però, l’alpinista di Pinerolo ha avuto un forte dolore a un piede, causato da una tromboflebite, un’infiammazione di una vena causata da un coagulo di sangue. “Ho proposto a Stefano e Alessandro di scendere al campo-base insieme a me, mi hanno risposto di no e quindi sono sceso da solo. Poi, a distanza, ho visto che stavano scendendo anche loro”.
“Dal campo 1 al campo-base occorrono 4 o 5 ore di cammino, su un itinerario non difficile, ma lungo e faticoso a causa dei saliscendi e del terreno instabile. I miei amici hanno deciso di rimandare l’ultimo tratto della discesa all’indomani, e questo li ha messi nei guai. Il meteo dava l’arrivo della perturbazione due giorni dopo, invece all’alba di martedì la tenda era già sepolta”.
Poi è iniziata l’attesa, mentre l’accumularsi della neve bloccava tutti gli itinerari di trekking ad alta quota nel Nepal, e creava condizioni pericolose su centinaia di cime, come ha purtroppo dimostrato la valanga che ieri mattina ha ucciso sette alpinisti (sembra che uno fosse di nazionalità italiana) al campo-base dello Yalung Ri, una vetta di 5630 metri nella valle di Rolwaling, a ovest dell’Everest.
Ieri pomeriggio, quando ho parlato con Valter Perlino, era chiaro che la possibilità di ritrovare in vita i suoi amici erano ridotte al lumicino. La conferma della tragedia, però, è arrivata solamente stamattina alle 8.29.




