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Camminare nel Pamir, nel “selvaggio est” del Tajikistan

Un viaggio affascinante in una terra remota, in vista di vette gigantesche come il Muztagh Ata e il Pik Lenin. Lunghe piste malmesse in fuoristrada, valichi e cime panoramiche a piedi, notti nelle yurte degli allevatori di yak

La pista che sale da Murghab ai pascoli di Ak Arkhar ha due volti. Nella prima parte, per un’ora e mezza dal paese, corre in piano in una valle idilliaca, accanto alle anse del fiume Madyan. Si costeggiano canneti e lagune che contrastano con gli aridi pendii delle montagne, e poi dei campi dove i contadini sono al lavoro con le falci.
Poi cambia tutto. Traversato un ponte malmesso, la pista piega a sinistra e sale con un paio di ripidissime rampe. Poi si entra a mezza costa in una valle impressionante, sul cui fondo corre un torrente impetuoso. I fuoristrada, con le ridotte inserite, salgono per un tracciato che taglia un ripido pendio ghiaioso, sfiorando con le ruote il dirupo che precipita verso il fiume. Pozze e buche da cui si esce a fatica, piccole frane che scendono all’improvviso dall’alto, strettoie da brividi portano a un nuovo cambio di scenario. Una distesa di pascoli circondata da aspre vette rocciose, qua e là rivestite da minuscoli ghiacciai.
Il sole è tramontato da un pezzo, le capre sono già in un recinto, gli yak tornano al piccolo trotto verso il jailoo, l’insediamento di pastori dove passeremo la notte anche noi. La yurta è piccola ma accogliente, il calore della stufa scaccia il freddo dei 4250 metri. Benvenuti nella valle di Ak Arkhar.

Sulle orme di Marco Polo

Che si arrivi dall’Europa, dalla Russia, dalla Cina o dall’India, l’altopiano del Pamir, oggi in buona parte in Tajikistan, è tra i luoghi più remoti della Terra. Sette secoli fa Marco Polo scriveva che “vuolsi essere quello il luogo più alto del mondo”, e “qui sono i migliori pascoli del mondo, perché un animale magro vi diviene grasso in dieci dì”.
“Dura questo piano, ch’è detto Pamer, dodici giornate senza che si trovi abitazione o cosa da mangiare. Non vi volano uccelli per l’alto luogo e freddo” prosegue il mercante veneziano. Da qui una ripida discesa porta a Cascar, oggi Kashgar, dove oggi come tra il Due e il Trecento “si entra nelle terre del Gran Can”, cioè in Cina.

Prima di ripartire verso Pechino, Polo dedica qualche riga ai “grandissimi montoni selvatici, che hanno le corna lunghe sei spanne” e che popolano quelle montagne. Non può sapere che, qualche secolo dopo, questi imponenti animali – le Marco Polo sheep – del Karakorum e del Pamir avrebbero portato il suo nome.
Altre vette di questa parte dell’Asia sono molto più alte e famose di quelle che si alzano intorno a Murghab, polverosa cittadina nell’estremo est del Tajikistan, a 1150 e più chilometri dalla capitale Dushanbe.

Si cammina con vista su Pik Lenin e Muztagh Ata

La sera del primo giorno di viaggio, ancora in Kirghizistan, ci troviamo davanti al massiccio del Pik Lenin, 7134 metri, con le sue creste spazzate dal vento e i suoi poderosi ghiacciai. La visione ci accompagna sui 4271 metri del Passo Kizil Art, dove un enorme stambecco di cemento saluta i visitatori che arrivano o lasciano il Tajikistan.

Una settimana più tardi, dalle aride montagne a sud-est di Murghab, vediamo tre cime ancora più alte sorvegliare la steppa del Sinkiang. E’ il massiccio del Muztagh Ata, 7546 metri, rivestito da poderosi ghiacciai.
La sua prima ascensione, nel 1956, viene compiuta da alpinisti sovietici e cinesi. Nell’elenco dei predecessori illustri spiccano lo svedese Sven Hedin (1894) e l’archeologo ungherese e poi britannico Aurel Stein (1900) che si limita a osservare la vetta e i suoi ghiacciai da lontano.

Poi, un anno prima della vittoria della spedizione socialista, tentano due grandi alpinisti come Eric Shipton (all’epoca console di Sua Maestà Britannica a Kashgar) e il suo amico Bill Tilman, autori di straordinarie ascensioni sull’Everest, sul Nanda Devi e sul Kenya. “Avevo addosso quattro maglioni, ma il vento mi faceva tremare come se fossi stato nudo” scrisse Shipton per spiegare il dietrofront a quasi 7300 metri, ormai sulla cupola sommitale.
Se il Pik Lenin è appannaggio ogni estate di alpinisti che arrivano da tutto il mondo, il Muztagh Ata è popolare tra gli appassionati delle pelli di foca. Per raggiungere la sua base, però, si deve passare dalla Cina. Dal Tajikistan, questa magnifica vetta si può solo guardare e non toccare.

All’inizio di quest’anno Avventure nel Mondo, sempre attiva nel mondo del turismo a piedi, ha lanciato il catalogo Trek the World, con oltre 300 percorsi in ogni angolo della Terra. Accanto a itinerari celebri come il Kilimanjaro, il campo-base dell’Everest e il FitzRoy in Patagonia, è stato fatto uno sforzo per trovare e inserire nuove mete.

Alla scoperta dei jailoo, gli insediamenti di allevatori di yak e di capre

Una delle più sorprendenti è proprio l’alta steppa del Pamir, in Tajikistan, fino a oggi soprattutto appannaggio di raid in 4×4 e in moto, di enormi camion fuoristrada e di ciclisti coraggiosi. L’idea del nostro viaggio è di andare alla scoperta dei jailoo, gli insediamenti di allevatori di yak e di capre che sorgono intorno ai 4000 metri.
Ci vivono donne e uomini di etnia kirghisa, dalle facce più tonde di quelle dei tagiki, che vivono quassù da giugno a settembre, e poi scendono a valle con le mandrie, compiendo una transumanza che sarebbe interessante seguire. I jailoo più grandi hanno due o tre yurte, i più piccoli una sola, affiancate da ripari in muratura.

Le yurte, relativamente facili da smontare e rimontare, hanno pareti verticali appoggiate a graticci di legno, e un tetto a cupola con un’apertura più o meno grande alla sommità. Il fondo è ricoperto da tappeti, accanto alle pareti sono alte pile di trapunte e cuscini.
Al centro è una stufa alimentata con sterco di yak seccato al sole (lo stesso del Tibet e del Khumbu) che viene riempita di continuo, creando delle temperature altissime. Quasi ovunque, su una parete, spicca un orologio regolato sul fuso del Kirghizistan, un’ora avanti a quello del Tajikistan. Un modo sobrio ma chiaro per ricordare l’etnia dei proprietari.
Ai jailoo e alle yurte si arriva in fuoristrada, sulle piste che gli allevatori percorrono con camion scalcinati, vecchie moto o con le storiche Uaz, le solide e scomodissime 4×4 dell’Armata Rossa sovietica. Oltre questi piccoli insediamenti si va a piedi, camminando in ambiente solitario, per splendide valli erbose (i pascoli degli yak!) e poi per pendii e crinali sassosi.

La sorpresa del lago Karakul

Il primo giorno non sono abbastanza acclimatato, e non riesco a raggiungere i circa 5080 metri dell’Orus Molo, una cima punteggiata da piccoli glacionevati. Poi i polmoni si abituano, le gambe fanno il loro dovere, e raggiungo i due omonimi Passi Belairyk, alti più meno come il Monte Bianco. Dal secondo ci si affaccia sull’Afghanistan, dal primo ci si tuffa sull’opposto versante, per una valle infinita e assolata, verso le yurte di Ak Zoo.

Seguono delle cime più tranquille, tra i 4600 e i 4700 metri, affacciate su scenari grandiosi, e dall’ultima ci si affaccia sul meraviglioso Muztagh Ata. L’ultima camminata, più dolce, conduce ai cocuzzoli sassosi affacciati sul Lago Karakul, 3900 metri, una delle grandi sorprese di natura del Tajikistan.

Il villaggio omonimo, accanto alla strada costruita dall’Armata Rossa negli anni tra le due guerre mondiali, è una delusione. Case in cattive condizioni, un caravanserraglio sgarrupato che ci fa rimpiangere i confort delle yurte, nuvole di zanzare se ci si avvicina all’acqua. Ma il panorama sul Pik Lenin e le altre cime sul confine kirghiso è splendido.
A consolare i viaggiatori provvede qualche bottiglia di birra tagika, rimasta quasi fresca chissà come. Il sapore è ottimo, la marca – come stupirsi? – è Yak. Una sigla perfetta, per concludere un viaggio affascinante.

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