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Sven Hedin, il discusso e geniale esploratore che voleva andare a Lhasa

Determinato e visionario, lo scienziato svedese effettuò importantissime esplorazioni in Asia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Scoprendo città, perpetrando sacrilegi, lasciandoci testi e mappe di grande valore. E quell’amicizia con Hitler.

È il 24 aprile 1880. La nave Vega entra nel porto di Stoccolma acclamata dalla folla. A bordo, c’è il geologo ed esploratore polare Nils Adolf Erik Nordenskjöld. Ad assistere alla scena, c’è quindicenne che dice a se stesso: «Anch’io vorrei tornare a casa in questo modo». Quel ragazzino si chiamava Sven Hedin. E come ricorderà molti anni in un suo libro di memorie, quel momento fu decisivo per la sua futura carriera di esploratore. Per prepararsi, studierà geologia, geografia, mineralogia, e per viaggiare si avvarrà anche del suo talento a imparare le lingue.

Sven Hedin (1865-1952), rampollo di buona famiglia svedese, esploratore di molte regioni del Tibet, fu un uomo che le montagne le misurava, anche se non disdegnava valicarle. Dall’alto dei 5885 metri del passo del Ding-La, per esempio, Hedin faceva spaziare lo sguardo sul paesaggio tibetano, con l’obiettivo di mapparlo e creare nuova conoscenza geografica. Testardo, follemente ambizioso e con il pallino di entrare nella storia ostentando i suoi record, lo svedese non è sempre stato amato dai suoi contemporanei. Al di là del suo carattere, lo stigma che ha contribuito a farlo dimenticare è stato il suo sostegno alla Germania nazista e la sua amicizia personale con Adolf Hitler, mai venuti meno neppure dopo la sconfitta del Reich. Resta comunque uno dei grandi scienziati esploratori del Novecento: un uomo dotato di un coraggio e di una forza di volontà indomabili, di fronte a qualsiasi difficoltà.

Il richiamo dell’Asia e del deserto

Il primo ingaggio che gli consente di uscire dalla Svezia è l’incarico di insegnante del figlio di un ingegnere svedese che lavorava all’estrazione del petrolio in Azerbaijian per conto di Alfred Nobel, l’inventore della dinamite e dell’omonimo premio. Sven viaggia in Persia e in Iraq e si imbatte per la prima volta nella bellezza del deserto. Al suo rientro, riesce a studiare per qualche mese a Berlino con il celebre geografo Ferdinand von Richthofen. È in questo periodo che il giovane svedese si innamora dei tedeschi, che considera “un popolo eletto”. All’età di 25 anni, un nuovo incarico lo porta in Iran, dove scala il Monte Damavand. Il richiamo dell’Asia e del deserto è ormai irresistibile. Dall’Iran parte verso la Via della Seta toccando Tashkent, Samarcanda, Bukhara, Kashgar e il deserto del Taklamakan. Sven vuole fare ritorno in questa terra, ma deve organizzarsi meglio. È il 1893 quando con il sostegno del sovrano svedese, di Alfred Nobel e dello zar di Russia parte da Stoccolma per raggiungere via Russia le montagne del Pamir dove tenta di scalare il Muztagh Ata (7546 m) ma senza successo. Attraversa il deserto del Taklamakan, dove rischia di morire di sete per un errore nelle scorte d’acqua, ma si imbatte anche in alcune città abbandonate di cui si erano perse le tracce. La spedizione si chiude nel 1897, quando Hedin rientra in Svezia.

Il sogno di raggiungere Lhasa, la meta proibita

L’esploratore freme per ripartire. Due anni dopo, nel 1899, torna in Asia. Nell’attuale Xinjiang cinese scopre l’importante sito della città buddhista di Loulan, ma non dedica troppo tempo agli scavi. Il suo sogno nel cassetto è raggiungere Lhasa in Tibet.

All’epoca i tibetani guardavano di cattivo occhio le visite degli stranieri. A Lhasa c’erano già stati nel 1716 i missionari gesuiti Ippolito Desideri e Manoel Freyre. Nell’Ottocento l’espansionismo dell’Impero Russo e degli inglesi che detenevano l’India, unitamente al potente vicino cinese, spingono i tibetani a tenere lontano chiunque dalla loro capitale. La lista di esploratori e avventurieri che tentano di raggiungere la città posta a quota 3650 metri è lunga. Russi, francesi, inglesi vengono intercettati e bloccati dalle guardie tibetane. Riescono nell’impresa di addentrarsi in Tibet solo i pundit, gli indiani addestrati dagli inglesi a effettuare rilevamenti topografici riportando informazioni preziose. Uno di loro, Nain Singh, nel 1866 entra a Lhasa. Nel corso della seconda spedizione in Asia centrale (1899-1902), lo svedese tenta il colpo. Lasciata Loulan, si traveste da mongolo scurendosi la pelle e tagliando i baffi e si fa accompagnare da un lama mongolo, spacciandosi per un pellegrino alla città sacra del Potala. Ma qualche viaggiatore fa la spia e Hedin viene smascherato e rispedito indietro. Due settimane dopo, il testardo svedese ci riprova. Niente da fare anche stavolta. Ottiene solo di uscire dal Tibet dirigendosi verso Calcutta e percorrendo una strada nuova, verso sud-ovest. Quando rientra a Stoccolma, è furibondo. L’insuccesso gli pesa, e non poco, anche se si butta nella scrittura di libri e resoconti di viaggio.

L’esplorazione proibita del Monte Kailash

Nel frattempo, Hedin lavora a una terza spedizione. Vuole che sia il suo viaggio più memorabile. Quando parte per l’Asia nel 1905, c’è una grande novità: una missione militare britannica ha piegato con le armi l’ostilità dei tibetani, segnando un punto a favore dell’Impero inglese contro quello zarista. Sven Hedin è scandalizzato per il trattamento riservato ai tibetani. Scrive persino una lettera di protesta a lord Curzon, il vicerè dell’India, provocando le ire degli inglesi, che lo etichettano come una spia dei russi. Niente di più lontano dalla verità, ovviamente. Hedin arriva in India quando il governo britannico ha deciso di impedire l’accesso degli stranieri in Tibet dal subcontinente. Lo svedese decide di fregarli, dicendo di essere diretto nel Turkestan cinese, poi nell’agosto 1906 riesce a entrare in Tibet. In questa spedizione, sostiene di aver individuato le sorgenti di tre grandi fiumi – Brahmaputra, Indo e Sutlej – mappa la catena montuosa Transhimalayana, lunga 1600 km e parallela in direzione ovest-est all’Himalaya e dice di essere il primo europeo ad aver effettuato il circuito dei pellegrini intorno al Monte Kailash (6638 m), sacro a cinque religioni e che è vietatissimo scalare. Hedin non è un antropologo, né uno studioso delle religioni: in barba ai divieti, naviga sui laghi Manasarovar e Rakas Tal, compiendo un vero sacrilegio. Per lui, è l’ennesimo record da portare a casa. Quando viene fermato da un ufficiale tibetano, ottiene di recarsi a Shigatse, dove si ferma per alcune settimane, lasciando un’interessante documentazione sulla città che poi sarà in parte devastata dalle Guardie Rosse nel 1959. Lhasa, invece, resterà un sogno irrealizzato.

Eroe in patria, ma solo fino a un certo punto

Con questo viaggio, termina l’epopea delle esplorazioni di Sven Hedin. Viaggerà ancora, ma in modo meno avventuroso. A Stoccolma nel 1909 è accolto come l’eroe che da ragazzino sognava di diventare. Tiene conferenze e scrive libri, ma è chiamato a tenere testa all’ostilità crescente degli inglesi. C’è chi gli contesta il nome della Transhimalayana, chi sostiene che altri alpinisti ed esploratori vi erano giunti prima di lui. I suoi modi sgarbati non gli sono d’aiuto. Hedin si avvicina sempre più alla politica e allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si schiera con i tedeschi. Non solo: la sua giustificazione del genocidio degli armeni nell’Impero Ottomano gli aliena molte simpatie. Anche i reali di Svezia si allontaneranno da lui. Per mantenersi, scrive in continuazione sfornando libri commerciali, soprattutto prima di Natale. Le vendite vanno molto bene in Germania, dove le sue opere sono tradotte ed è molto popolare. Il suo appoggio ai nazisti attraversa un unico momento di crisi quando in un libro difende la Chiesa e gli ebrei, svelando di avere un sedicesimo di sangue ebraico da parte materna. Il passaggio viene censurato e le buone relazioni con Hedin si ricuciono. Tant’è che incontra Hitler più volte a Berlino e si schiera apertamente con i tedeschi quando invadono Danimarca e Norvegia.
Morirà nel 1952, convinto che la Germania sarebbe risorta dalle sue ceneri dopo la sconfitta. Il grande esploratore, giunto ai piedi del Nyenchen Tanghla – la cima scalata per la prima volta dai giapponesi nel 1986 – morirà nella sua Stoccolma. Senza lasciare eredi: non aveva mai voluto sposarsi e quando non era in viaggio viveva con quattro sorelle nubili, trattato come una celebrità.

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