Curiosità

Storia di Oskar, guida di Solda

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"L’odore pungente del ghiaccio era rimasto codificato nei suoi geni come brodo primordiale dal quale anche Oskar era stato generato. Il ghiaccio era tutto, gli pulsava nelle vene, affiorava dai pori, gli solleticava gestualità rituali. La progressione lenta su pendii incredibili con un passo incrociato metodico, sicuro, mentre i ramponi tintinnavano intaccando quella superficie di lucido vetro". Inizia così la terza puntata del racconto scritto da Enrico Farina, che ha per protagonista Oskar, storica guida alpina della valle di Solda, stavolta alle prese con l’alpinismo, le insidie del ghiaccio, la forza che unisce le cordate.

Piccozze che assicuravano e gradinavano, spruzzando schegge scintillanti che parevano comete di fuoco. Il manico, dal puntale d’acciaio, ben piantato per garantire la stabilità in cresta, per resistere alle raffiche del vento. Quelle raffiche di vento gelido ed ululante che, ostinatamente e con violenza, vorrebbero ricacciare a valle i piccoli ed estranei cocciuti per insegnar loro che la montagna è la regina e loro semplici sudditi.

Quanti ricordi da una semplice foto. Quanti momenti impagabili vissuti sull’emozione di un rischio ragionevole e ponderato, con quella parete bianca sempre davanti a te che, mentre la incidevi con gli unghioni affilati, ti precludeva la vista. Ma quando la parete, declinando lentamente, ti faceva arrivare sul punto più alto ecco che, all’improvviso, lo sguardo, senza ostacoli, spaziava sul piano del cerchio infinito.

 Un infinito drappeggiato da ballerine di luce e stracci di nubi che, sbuffanti e veloci al suono di flauti d’orchestra, danzano, da sempre, attorno a quei coraggiosi ed estranei cocciuti. E su quelle minuscole vette, una volta sfilato lo zaino, potevi scoprire che ogni estraneo era un amico.

– Berg Heil, Helmut…
– Berg Heil, Oskar…

Una poderosa stretta di mano e una manata sulle spalle suggellavano queste poche parole ma gli occhi, incrociandosi, esprimevano tanti discorsi. E nel semplice saluto, il groppo alla gola veniva a stento trattenuto.

Poi, ognuno, nella propria intimità, spaziava l’infinito abbeverandosi di quella pace inebriante che solo l’altezza sa elargire. E dalle sottili increspature dei cirri, ancora più alti, ecco apparire Molly Cronohan, l’immancabile seduttrice che, Oskar ne era certo, non sarebbe mancata. Dolce e puntuale come sempre nei loro incontri segreti.

Chissà se nell’estate del 1804 era la stessa fata, anzi la sua fata, che aveva accompagnato quel cacciatore di camosci, soprannominato Pseirer-Josele ma ricordato nella storia dell’alpinismo come Josef Pichler, sulla cima dell’Ortler, quell’enorme montagna che ai valligiani incuteva solo timore e ataviche paure. Era venuto dalla Val Passiria, come il suo compatriota Andreas Hofer, ma lui non per combattere contro i napoleonici ma semplicemente per calpestare, in prima assoluta, quella bianca vedretta.

Erano gli anni in cui l’alpinismo ancora non esisteva e che solo a pochi temerari balenava l’idea di salire tra crepacci e pareti ghiacciate per arrivare là, dove leggende popolari avevano sempre giurato essere la dimora di spaventosi mostri maligni. Erano gli anni in cui i ricordi di Whimper, Saussurre, Paccard e Balmat non si erano ancora spenti.

Il Cervino, il Bianco e le cime più alte e conosciute delle Alpi erano state raggiunte da poco e, più spesso, con l’unico scopo di effettuare rilevazioni barometriche che non per il piacere alpinistico. Quel piacere che ancora vagiva nella culla di un alpinismo nato da poco.

Questo sembrava strano anche ad Oskar, che seppure le rughe indicavano un’età avanzata, non apparteneva di certo a quella schiera di pionieri. Da oltre un secolo i cacciatori di camosci avevano lasciato spazio agli alpinisti, a quei conquistatori che assumendo il primo ruolo di guide, accompagnavano villeggianti inglesi, tedeschi e qualche raro italiano, gradinando il ghiaccio con la scure da boscaioli, piazzando scale di legno per superare i crepacci, e affidando la loro sicurezza al lunghissimo manico degli Alpenstock.

Tra questi arditi, considerati quasi dei pazzi, si devono annoverare anche molte rappresentanti del mondo femminile, che con gonne striscianti e smisurati cappelli legati da vezzosi foulard si avventuravano tra le insidie di ghiaccio con semplici scarpe chiodate. In qualche raro caso le più evolute e spudorate calzavano, sotto la gonna, pantaloni da uomo.

Lui, Oskar, faceva alpinismo per il gusto di salire le sue montagne ricalcando le "vie" già aperte da altri. Aveva avuto la fortuna di vivere la sua esperienza negli anni più belli ed entusiasmanti di questa pratica sportiva, avendo a disposizione un’attrezzatura moderna ed efficiente anche se non futuristica e di derivazione spaziale.

Aveva avuto degli istruttori esemplari che gli avevano trasmesso i segreti dell’arrampicare in sicurezza mettendo a frutto la loro lunga esperienza. Il materiale era semplice, robusto e, seppur più pesante, offriva tutte le garanzie per la riuscita delle scalate. 

Chiodi di ferro dolce, rozzamente fusi, moschettoni privi di ghiere, ramponi senza saldature forgiati a mano da un unico pezzo di metallo, piccozze con manico di faggio e le prime corde in Rajon o Perlon che surclassavano quelle, già obsolete, di canapa. Zaini che iniziavano a prendere la forma a sacco verticale e con le prime cinghiette in pelle per il trattenimento in vita. E spesso i primi ad usare i caschi da roccia venivano derisi, quasi fosse umiliante cacciarsi in testa quell’aggeggio di plastica che sostituiva la tradizionale "caciola" di lana.

Non esistevano imbragature, ci si legava alla vita con il classico nodo "bulino" e chi saliva sulle "ferrate" lo faceva così, senza alcun cordino di sicurezza affidandosi, inconsciamente, alla forza delle proprie mani.

Confrontandosi con gli arrampicatori di oggi, supertecnologici e super attrezzati, Oskar non li invidiava e percepiva che a loro, in fondo, mancava qualcosa. Mancava la ragionevole certezza che l’acrobazia e la velocità non erano tutto per scalare le montagne.

Bisognava vivere l’ambiente alpino nella totalità delle ore di una giornata, anche in più giorni, riposando in semplici cuccette nel dormitorio del rifugio o passando la notte a guardare le stelle appesi ad un’amaca in parete, rifocillandosi con del tè scaldato da un piccolo fornello a benzina.

Non capiva quelle ascensioni a "rate" attrezzando la parete con mille aggeggi multicolori, magari cacciati con forza nella roccia con trapani o diavolerie varie, per poi tornare a dormire in una tendina posta sotto la parete e risalire, il giorno dopo, per riconquistare la posizione già raggiunta precedentemente.

La chiamava, ironicamente, non perdendosi l’opportunità di sottolineare il suo disappunto nelle immancabili discussioni tra conservatori e progressisti: "la filosofia dell’ascensore". Per lui, questo, non era più alpinismo. E, spesso, il riferimento al Cerro Torre e al famoso compressore appeso in parete che dette l’avvio alla tecnologia cantieristica, portava gli animi a scaldarsi.

Nella sua lunga esperienza era salito su tutti i ghiacciai di casa, ma non aveva tralasciato di fare incursioni tra le siderali maestosità del Monte Bianco, del Rosa, del Cervino, del Bernina, tra le impressionanti seraccate della Brenva e sempre…in compagnia di Molly Cronohan, ma qualche volta, tradendo il suo amore legittimo, anche con le altre favorite del suo harem: Durkfulla, Breedya o la focosa Kathleenn. Si accompagnava, così, con queste stupende fate-concubine secondo l’umore della giornata.

 

(continua)

Enrico Farina

 

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Storia di Oskar, guida di Solda – prima puntata 
Storia di Oskar, guida di Solda – seconda puntata

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