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Cristian Brenna, campione in parete e nella vita

Scanzonato, ironico, fortissimo in parete, oggi avrebbe compiuto 55 anni. Il ricordo in prima persona di chi ha condiviso con lui momenti importanti. E che è stato vittima dei suoi scherzi

Sono passati quasi due mesi dal 3 giugno quando Cristian Brenna ci ha lasciati e, oggi, nel giorno del suo compleanno, il pensiero di tanti appassionati di arrampicata inevitabilmente corre a lui.

Non è bello che un cronista si lasci troppo andare ai ricordi personali, soprattutto quando questi ricordi non sono quelli di un amico, ma di chi una leggenda della scalata come Cristian, l’ha soltanto sfiorata, qualche volta intervistandolo, altre volte incrociandolo in giro per falesie e pareti.

Insomma, io Brenna l’ho sempre guardato a distanza, con gli occhi dell’ammiratore, ma forse anche la testimonianza di questo sguardo può essere d’aiuto, soprattutto per gli scalatori delle generazioni più giovani, per capire un po’ meglio chi fosse e cosa abbia rappresentato per il movimento italiano dell’arrampicata sportiva prima e dell’alpinismo poi.

La prima volta che l’ho incrociato è stato a metà degli anni 90, nella falesia di Cornalba, allora gettonatissimo spot dei top climber lombardi, e non solo.

L’elettricista più forte di Milano

Ricordo una gelida mattina d’inverno, al parcheggio sotto la Corna Bianca. “C’è anche il Rasta”, disse uno dei local che mi scortavano nella mia prima visita alla falesia. Dall’auto accanto alla nostra vidi scendere un ragazzino con occhiali da sole, capelli lunghi raccolti da una fascia, dreadlocks che arrivavano quasi al fondo schiena e… una gamba ingessata fin sotto al ginocchio!

Con quel gesso e un paio di stampelle saltellò lungo il sentiero fin sotto alla parete e poi cominciò a scalare una dopo l’altra una riga infinita di vie di 7b e 7c. Mica vie ciapa e tira, ma i 7b e 7c di Cornalba, il regno della scalata tecnica e di piedi, tutti saliti senza apparente sforzo, con uno zampone Vismara al posto della scarpetta! Per fortuna all’epoca non avevo ancora ben presente cosa significassero quei gradi, altrimenti le mie di scarpette le avrei probabilmente appese subito al chiodo…

Quello era il Rasta, l’astro nascente della scalata italiana e internazionale o, meglio, l’elettricista più forte di Milano, come si definiva egli stesso in quegli anni in cui non era ancora entrato a far parte del Gruppo sportivo delle Fiamme Gialle ed era semplicemente uno scalatore del weekend come noi, solo con quattro, cinque o anche sei marce in più della media.

Per chi ha vissuto la scalata in quel periodo Brenna è stato anche questo: il campione della porta accanto, il portabandiera del movimento arrampicatorio italiano, che aveva passione, dedizione e talenti, ma ancora pativa un senso di inferiorità rispetto ad altre “scuole”, in particolare quella francese, da dove erano arrivati i miti come Berhault ed Edlinger, e che continuava a sfornare i fuoriclasse che furoreggiavano in falesia e nei circuiti delle gare.

Adesso ce lo avevamo anche noi un fuoriclasse assoluto, uno destinato a salire i primi 8b e 8b+ a vista, a diventare per tre volte campione italiano Lead, a vincere altrettanti circuiti di Coppa Italia, a guadagnarsi due medaglie d’argento al Campionato Europeo e poi due bronzi, un argento e un oro nelle tappe di Coppa del Mondo Lead, a fare la parte del leone nei master più prestigiosi, quello di Arco e di Serre Chavalier, e a varcare la fatidica soglia del 9a con la salita di Underground a Massone.

Quella passione per gli scherzi

Come cronista l’ho seguito in alcune delle tappe della sua strepitosa carriera. Ai tempi internet non era ancora l’amplificatore immediato di tutto ciò che accade al mondo, per avere le notizie sull’esito delle gare, il mezzo più rapido era telefonare agli atleti dopo la competizione e chiedere direttamente a loro. Brenna era uno dei miei “informatori”, non uno fra i più affidabili.

Mi torna in mente una telefonata dopo non so quale gara di Coppa Italia. Cristian mi riportò la classifica finale, avendo cura di storpiare accuratamente i nomi degli atleti più in vista.

Ricordo in particolare un: “Quarta Jenni Laverda”. “Lavarda, vorrai dire!”, lo corressi perplesso. E lui: “No, no, si chiama proprio Laverda, come la moto!”, e io, boccalone: “Ma guarda, fino ad ora ho sempre sbagliato il cognome!”.

Insomma, anche io ho avuto l’onore di essere una delle tante vittime della sua proverbiale passione per gli scherzi e l’ironia. Era una caratteristica sua, ma anche un segno di tempi che forse sono tramontati per sempre: certo, il mondo della scalata si era ormai avviato verso la prestazione, l’agonismo e gli allenamenti sistematici, ma lo spirito che aleggiava, anche fra i campioni, era ancora quello scanzonato e un po’ “feroce” delle origini. Ancora, anche fra i fortissimi, c’era la convinzione che parte essenziale del divertimento stava nel non prendersi troppo sul serio, cosa che spesso faceva rima col prendersi e prendere per i fondelli.

Sul Cerro Piergiorgio con Barmasse e Ongaro

L’occasione una piccola rivincita l’ho avuta parecchi anni dopo, nel 2008, quando Brenna, trasformatosi in alpinista ed entrato nel Gruppo Ragni, prese parte all’ennesimo tentativo di concludere la via iniziata nel 1995 da Casimiro Ferrari sulla parete nordovest del Cerro Piergiorgio.

Sotto quella parete c’ero stato anche io, in un’infruttuosa precedente spedizione, e mi venne spontaneo pensare: “Vediamo un po’ come se la cava il top climber alle prese con le delizie della scalata patagonica!”.

Solo che il top climber la sua trasformazione in alpinista l’aveva già completata. E che alpinista! In cordata con Giovanni Ongaro e Hervé Barmasse, Cristian dimostrò di avere tutta la tenacia e la sopportazione che servono per danzare l’infinito balletto col maltempo patagonico. Assieme riuscirono a completare la salita dei tiri più difficili della via. Poi dopo l’infortunio occorso a Ongaro, quando erano ormai in alto sulla parete, furono proprio lui e Barmasse a raggiungere finalmente la cresta sommitale, in un ultimo rush non stop in arrampicata notturna, per evitare le scariche di ghiaccio e anticipare l’arrivo dell’immancabile perturbazione.

Il superamento della specializzazione

Anche in questo Cristian è stato un esempio e un precursore. Gli anni 90, per molti aspetti, nel mondo della verticale erano stati il trionfo della specializzazione. Sembrava che, almeno ai massimi livelli, le strade dell’arrampicatore sportivo, del boulderista, del trad climber, del garista e dell’alpinista fossero sempre più destinate ad allontanarsi. Gli anni 2000, invece, hanno dimostrato che le capacità atletiche e tecniche acquisite sui massi, nelle falesie o sulla plastica, possono essere convertite e messe a frutto con straordinario vantaggio e rapidità, anche in contesti molto differenti.

In quel passaggio storico Brenna, ancora una volta, era lì, sul pezzo, pronto ad esplorare con la stessa grinta e lo stesso talento un nuovo percorso fra le pareti, anche come guida alpina e come soccorritore. Sempre con il suo gusto per lo scherzo e l’ironia graffiante, sempre con quell’entusiasmo e quella passione che, anche se non potevi dire di conoscerlo bene, anche se lo incrociavi raramente in giro fra pareti e falesie, magari all’inizio ti facevano pensare “vabbeh, appendo le scarpette al chiodo!”, ma poi finivano per contagiarti, perché immediatamente capivi che quella che vedevi in azione era l’arte della scalata, una cosa troppo bella e troppo grande per non volere che fosse parte anche della tua vita.

Quindi gas aperto al massimo, allenarsi, dare tutto, proprio come Brenna, anche se con quattro, cinque, sei e pure sette marce in meno!

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