
Primi di luglio 1985. L’arrampicata e l’alpinismo si preparano a conoscere due eventi di fondamentale importanza. Da una parte, a Bardonecchia, l’avvento di Sport Roccia, prima competizione di arrampicata sportiva, destinata a cambiare profondamente i connotati di una disciplina che fino a quel momento aveva forse vissuto la performance come mero corollario all’avventura. Dall’altra, nelle ancora remote lande di una Patagonia abbondantemente ammantata di neve e ghiaccio, la prima salita invernale del Cerro Torre, lungo lo spigolo sud-est noto anche come Via del Compressore.
A firmarla, assieme al compianto Ermanno Salvaterra, furono le guide alpine Paolo Caruso, Maurizio Giarolli e Andrea Sarchi.
Abbiamo avuto il piacere d’intervistare proprio Paolo Caruso, partendo anzitutto dal concetto di impossibile. Fu l’impossibile infatti a richiamare Cesare Maestri per la prima volta al Torre, vetta che, su insistenza di Cesarino Fava, nel 1959 si era finalmente convinto ad affrontare, insieme a Toni Egger. E proprio l’onta del dubbio sulla sua salita al Torre del 1959 aveva fatto scattare poi in Maestri, nel 1970, il desiderio di sfidare l’impossibile ancora, cercando di mettere a tacere le polemiche con l’apertura di un nuovo itinerario, la cosiddetta Via del Compressore lungo lo spigolo sud-est del Torre, per raggiungere (di nuovo?) la cima tanto contestata. In un certo senso, l’impossibile che tormentava Maestri è stato parimenti un focus – ma in positivo – per tutta la carriera di Paolo Caruso.
«All’inizio – racconta Caruso – il mio obiettivo era semplicemente quello di fare attività in montagna e in falesia. Provenendo da Roma era tutto più difficile. Ma questo, più che un deterrente, è stato per me una spinta: un motivo in più per correre ad esplorare un po’ ovunque, vicino e lontano da casa. Dalle Dolomiti al Gran Sasso, fino al Monte Bianco: seguivo un interesse per la montagna che si muoveva e mi muoveva veramente a 360 gradi. Ad un certo punto però la mia ricerca si è orientata verso un qualcosa in più: sentivo di voler implementare la mia conoscenza della montagna e di me stesso. Restando sempre sul concetto di impossibile, ho iniziato dunque a ricercare salite capaci di andare oltre a quello che io definivo “il limite culturale”, più che fisico. La via Cavalcare la tigre sul Gran Sasso, le prime invernali sul Paretone e l’alpinismo esplorativo in Groenlandia che avevo già portato a termine in quegli anni sono state modalità attraverso cui sono riuscito ad avvicinarmi al concetto di impossibilità “mentale”. La prima invernale al Torre fa parte di questo tipo di salite, che mi affascinavano molto».
Da chi è nata l’idea del progetto?
«Io avevo già fatto diverse salite con Andrea Sarchi, dal Monte Bianco alle Dolomiti: insomma, lo conoscevo bene ed eravamo amici. Giarolli lo conobbi invece al corso guide. Quest’ultimo conosceva Salvaterra ed è stato quasi naturale ritrovarsi tutti insieme. Giarolli e Salvaterra avevano già fatto una ripetizione in estate, nel 1982, della Via del Compressore, e questo stimolò l’idea di tentare l’invernale, all’epoca considerata davvero impossibile. Io non ero mai stato in Patagonia e siccome la parte esplorativa dell’alpinismo mi appassionava, non ebbi alcuna reticenza nell’accogliere la sfida».
Com’è stato il tuo primo (e anche ultimo) approccio alla Patagonia?
«Dici bene: dopo la prima invernale al Torre, in Patagonia non ci sono più tornato. E il motivo principale è perché voglio salvaguardare il ricordo che ancora ne ho: quello di una terra selvaggia, remota e inaccessibile. Non c’era niente, in Patagonia, d’inverno. A El Calafate viveva solamente un guardiaparco, e poche altre persone. Nel luglio 1985 percepivi un isolamento assoluto e una grande distanza, una solitudine umana che di fatto per me non era una novità. Già in Groenlandia, l’anno prima, avevo vissuto sensazioni di isolamento simili, se non maggiori. Anche il ghiacciaio del Torre a me sembrava quasi familiare, almeno facendo il confronto con i complicatissimi ghiacciai della Groenlandia. E al vento forte ero molto abituato grazie all’attività portata avanti al Gran Sasso. Lì avevo già sperimentato la potenza del vento che può raggiungere livelli perfino peggiori rispetto alle condizioni patagoniche, se non per frequenza almeno per energia. Lanciare una doppia che, per via delle raffiche, ti risale verso l’alto era un’esperienza che avevo già vissuto più volte».
Come si è svolta, nella pratica, la vostra salita al Torre? Quali i disagi che avete dovuto affrontare?
«Abbiamo fatto almeno due tentativi prima del successo, cercando di salire quando il tempo lo permetteva. Le condizioni si erano però rivelate sin da subito proibitive e le finestre di bel tempo duravano poco, o comunque non sufficientemente da permetterci di poter arrivare ad un buon punto della parete. Dunque, ci toccava ogni volta ridiscendere per poi risalire di nuovo quando il meteo migliorava, in uno yo-yo esasperante.
Alla terza occasione e al terzo guastarsi della meteo abbiamo deciso di rimanere comunque in parete, di non ridiscendere. La bufera diventò tuttavia ben presto molto più forte del previsto, tanto da costringerci a rimanere per quaranta ore seduti l’uno di fianco all’altro nella nostra tendina. Nella salita, ci alternavamo al comando ogni quattro/cinque lunghezze di corda. In quel momento avevo fatto da primo i due tiri di corda precedenti a quella sosta, pertanto dopo il bivacco toccava ancora a me proseguire da primo di cordata. Il giorno successivo le condizioni meteo sembravano essere addirittura peggiori ma non potevamo assolutamente permetterci di restare lì, visto che stavamo esaurendo tutti i viveri, oltre che la pazienza e le energie. Ricordo di aver chiesto ai miei compagni che cosa ne pensavano, cosa avrebbero voluto fare, bisognava cioè ufficializzare una decisione: andare avanti oppure ridiscendere. “Cosa facciamo?” domandai loro. E ricordo che né Salvaterra né Sarchi né Giarolli mi risposero: si limitavano a tenere la testa bassa e ad osservare con sguardo fra il cupo e il rassegnato la parte di montagna che ci attendeva al di sotto, nel caso di un’eventuale ritirata. Presi il loro silenzio come uno stimolo ad andare avanti, anche se sapevo benissimo che molto probabilmente significava il contrario».
Una scelta, quella, che alla fine vi premiò.
«Sì, anche se non ce ne rendemmo conto subito perché quel giorno riuscimmo a completare soltanto altri due tiri, con la meteo orrenda come fedele compagna. Il mattino successivo però ci attendeva una piacevole sorpresa, quasi un miracolo: un giorno e mezzo di tempo bello, grazie al quale raggiungemmo la cima e coronammo quel sogno».
Postumi dell’impresa?
«A parte alcuni lievi congelamenti, ingrassare di minimo 17 chili a testa una volta rientrati, un aumento di peso dovuto ad una fame che non provai – fortunatamente – mai più nella vita. E che era così tanta proprio perché quegli ultimi giorni li passammo quasi totalmente senza viveri. Penso di aver conosciuto solo in tale circostanza la fame vera, quella che ci raccontavano i nostri nonni e genitori quando eravamo piccoli».
Un Torre che è stato teatro di una vera e propria guerra di opinioni. Ma quali sensazioni hai provato su una via nata di fatto dalla rabbia di un uomo, Maestri, che si sentiva attaccato?
«Ricordo che in particolare Salvaterra – ma anche gli altri miei compagni- in quel periodo era uno strenuo difensore di Cesare Maestri: era assolutamente convinto che avesse compiuto la sua ascensione al Torre già nel 1959, con Toni Egger. Poi sappiamo che negli anni Ermanno cambiò idea, ma allora era realmente fiducioso.
Io ero il più titubante del gruppo: mi chiedevo a che pro aprire una via nuova, al di là delle modalità con cui scegli di farlo, quando puoi dimostrare di essere nella ragione semplicemente ripercorrendo l’itinerario che dichiari di aver già aperto in precedenza? Sì, io ero dubbioso. Ma ciò non toglie che la Via del Compressoresia qualcosa di estremamente diverso rispetto a quello che l’immaginario pubblico ci ha abituati a pensare. A me colpì molto, per esempio, il fatto che su questa via, di circa 2.000 metri di sviluppo, soltanto 7 tiri fossero chiodati a pressione: una piccolissima parte rispetto alla salita nel suo complesso. È chiaro che nei tiri in cui Maestri e i suoi compagni avevano deciso di usare il compressore non si erano risparmiati nel farlo, ma in quelli invece dove non ne era stato fatto uso – e dunque la maggior parte – di chiodi non ce n’erano. Ho trovato l’itinerario molto equilibrato da questo punto di vista e ben lontano dalle narrazioni spesso faziose che ne sono state fatte. Il peso di questa tanto vituperata chiodatura, rispetto all’intera salita, era marginale».
Infine, cosa di questa tua esperienza al Torre hai portato nello sviluppo del tuo celebre metodo di arrampicata?
«Tantissimo. Innanzitutto la possibilità di superare ciò che era ritenuto impossibile dal punto di vista culturale e mentale. In quegli anni tutti credevamo che l’arrampicata fosse istintiva e per questo che non si poteva neanche concepire una specifica tecnica del movimento, al contrario di quanto già avveniva in tutti gli altri sport. In senso lato, ogni mia esperienza in arrampicata e in montagna mi è servita per analizzare il movimento anche dal punto di vista biomeccanico ed elaborare un metodo efficace per la tecnica del movimento. Mi rendevo conto che la questione era spinosa o che comunque mancava nella nostra attività, nonostante l’arrampicata stesse diventando uno sport a tutti gli effetti e come tale necessitava di tecniche motorie adeguate al suo insegnamento e ai tempi ormai decisamente più maturi. Insomma, fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta sono riuscito a delineare i principi di base e le prime tecniche di quello che poi è diventato il Metodo Caruso nel quale, alle mie conoscenze di arrampicata e al bagaglio di esperienze che avevo maturato, ho incluso determinati principi e contenuti del Tai Chi, una disciplina che avevo scoperto poco dopo il Torre e che mi aveva molto aiutato in seguito ad un grave infortunio alla caviglia. Insomma, sicuramente a quella prima invernale al Cerro Torre devo tanto, sia professionalmente che umanamente: non da ultimo, l’amicizia capace di legare ancora me, Andrea, Icio ed Ermanno, che ci manca ormai da quasi due anni, è stata un grande dono».