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Vincenzo Sebastiani: la storia di un uomo speciale e del rifugio a lui intitolato

Nel massiccio del Velino, in Abruzzo, un rifugio a 2102 metri di quota ricorda il giovane ufficiale caduto nel 1917. Era un alpinista, uno sciatore, un innamorato dell’Appennino

Qualche mese fa, in un rifugio dell’Appennino, un vecchio quadro è tornato al suo posto. Mostra un giovane ufficiale dall’aria assorta, in partenza per una guerra da cui non sarebbe tornato. Si chiamava Vincenzo Sebastiani. Più di un secolo fa ha contribuito allo sviluppo dell’alpinismo e dello sci tra Roma e l’Abruzzo. 

Qualche anno fa, i suoi nipoti hanno donato il quadro al CAI di Roma. Di recente, com’era giusto, il quadro è arrivato al rifugio che a Sebastiani è dedicato. Non lontano da lì, accanto al Bicchero, al Velino e al Costone, due cime ricordano Trento e Trieste, e la guerra che ha devastato l’Europa tra il 1914 e il 1918. 

Un secolo fa, tra le nevi delle Alpi e le pietraie del Carso, migliaia di giovani pastori, operai e contadini abruzzesi sono stati mandati al macello insieme ai loro coetanei delle altre parti d’Italia. Prima di andare all’assalto questi ragazzi si facevano il segno della croce, e mormoravano un’Ave Maria o un Padre Nostro. 

Molti seguendo l’esempio di ufficiali altrettanto spaventati, uscivano dalle trincee gridando “Savoia!”. Spesso, sono state le loro ultime parole. Per i più colti, per chi sapeva leggere almeno i titoli dei giornali, oltre i reticolati e le mitragliatrici austro-ungariche c’erano due città da liberare. Trento e Trieste, appunto. 

Quando la guerra è finita, e sul Castello del Buonconsiglio e a San Giusto è stato issato il tricolore, ogni città italiana ha dedicato a Trieste e a Trento una strada o una piazza. Nello stesso modo sono stati celebrati i luoghi delle battaglie (l’Isonzo, il Grappa, il Piave, il Montello…), e gli irredentisti giustiziati dal nemico come Cesare Battisti, Nazario Sauro e Fabio Filzi. 

Sul massiccio del Velino, in Abruzzo, la dedica di due vette a Trento e Trieste ha una storia in parte diversa. Il suo protagonista si chiamava Vincenzo Sebastiani, era nato a Roma nel 1885, era uno sportivo e un appassionato di montagna. Dopo la laurea in Ingegneria, lavorò ad Amatrice e a Leonessa, poi diventò vicecomandante dei Vigili del Fuoco di Roma. Nel 1915, dopo il terremoto della Marsica – 30.000 vittime! – partecipò ai soccorsi con i suoi uomini. 

Sportivo appassionato e poliedrico, Sebastiani praticava nuoto e bici, e andava in moto sulle strade sterrate dell’Appennino. Come alpinista, era il 1911, aprì con Gino Bramati una via sulla cresta Sud del Corno Piccolo, al Gran Sasso. Fu tra i primi romani ad appassionarsi allo sci (ma allora si scriveva “ski” o perfino “sky”) partecipò a gare a Roccaraso. Nel 1913 contribuì a fondare il Gruppo Romano Skiatori. 

Nello stesso anno, Vincenzo propose al CAI di costruire sul Velino un rifugio analogo a quelli del Gran Sasso, della Maiella e del Terminillo. Con l’amico Emanuele Gallina, dopo vari sopralluoghi, propone di erigerlo al Colle del Bicchero.   

Nel maggio del 1915, quando l’Italia entrò in guerra per “redimere” Trento e Trieste, Sebastiani voleva indossare la divisa degli alpini, ma fu arruolato nei pompieri militari. Nel 1916, dopo la conquista di Gorizia, l’ufficiale arrivato da Roma fu messo al comando del distaccamento che operava in città. L’abitato era controllato dalle truppe in grigioverde, ma i cannoni austro-ungarici lo colpivano ogni giorno. 

Il 19 agosto 1917, Sebastiani e i suoi uomini intervennero per spegnere gli incendi ed evacuare i feriti da un palazzo bombardato. Una granata esplose tra i pompieri, e Vincenzo cadde a terra ferito. Si spense dopo ventiquattr’ore di sofferenza, fu decorato con una medaglia d’argento alla memoria. 

Al ritorno della pace, una generazione era stata decimata dalle mitragliatrici, dai cannoni, dai gas e dai fucili. Per l’Italia, il prezzo fu di seicentomila morti e un milione di feriti. La Sezione di Roma del CAI vide 95 soci su 300 vestire il grigioverde, e alcune decine tra le vittime. 

L’inaugurazione del rifugio Sebastiani nel 1922

Nel gennaio del 1920, Alfredo Messineo ed Emanuele Gallina, compagni di gita di Sebastiani, battezzano le punte Trento e Trieste, alte 2243 e 2230 metri. Si riprende a pensare al rifugio, da dedicare all’amico caduto. Il luogo prescelto, il Colletto di Pezza, può essere raggiunto da Ovindoli e da Rocca di Mezzo, ma anche da Celano, Lucoli, Tornimparte, Magliano de’ Marsi e Cartore. 

Per finanziare i lavori la Sezione organizza feste con ingresso a pagamento, ed emette addirittura delle obbligazioni. Il giorno dell’inaugurazione, centinaia di soci arrivano in treno a Celano (cinque ore e mezza da Roma), e proseguono a piedi verso il rifugio. Ma quel giorno, il 28 ottobre 1922, passa alla storia per un altro viaggio in treno, la Marcia su Roma di Benito Mussolini e dei suoi fascisti verso la Capitale. 

Grazie al rifugio, tra il 1929 e il 1934, un gruppo di alpinisti romani (Riccardo Orestano e Sergio Calisse, poi anche Paolo Savini e Pietro Lopriore) esplora la parete della vetta occidentale del Costone. Su quella bastionata verticale e friabile, che con un bel po’ di ottimismo viene definita “dolomitica”, aprono cinque vie, con difficoltà tra il terzo e il quarto grado superiore. 

La maggioranza dei visitatori del Velino, allora come oggi, preferisce escursioni e scialpinismo. Il sentiero più lungo scavalca il Colle dell’Orso, scende al Colle del Bicchero e prosegue a saliscendi fino ai 2487 metri del Velino. I più pigri, invece, raggiungono dal rifugio la vicinissima (mezz’ora) vetta orientale del Costone, o salgono alle punte Trento e Trieste.
La prima, dove oggi è una croce di legno, precipita con pendii di rocce ed erba verso il Piano di Pezza, e digrada dolcemente a nord con un prato dove pascolano i cavalli. La Punta Trieste, più remota, si raggiunge dalla prima scendendo per un sentiero segnato e risalendo per elementari roccette.
I panorami abbracciano il Gran Sasso e il Sirente, la piana coltivata del Fucino, i monti del Parco d’Abruzzo, Lazio e Molise, vari “montarozzi” del Lazio, i Monti della Laga e il Terminillo. Il Velino da qui sembra un triangolo perfetto. In cielo compaiono spesso i grifoni. 

Ai piedi delle punte Trento e Trieste, c’è il rifugio Sebastiani. Aperto in estate e in molti weekend invernali, è da sempre un punto di riferimento per gli appassionati. Una volta, per passarci una notte, occorreva ritirare le chiavi al CAI. Poi Eleonora Saggioro e i suoi amici della Cooperativa Equorifugio lo hanno preso in gestione, nonostante i muri scarrupati, i dodici posti letto e i servizi rudimentali. E’ stata una scommessa, ma ha pagato. 

La cucina è buona, l’accoglienza sorridente, concerti, presentazioni di libri culinarie e serate a osservare le stelle hanno fatto del Sebastiani un luogo di amicizia e cultura. Poi, dopo la paura del Covid, il vecchio rifugio è cambiato. Grazie ai fondi della Sezione di Roma e della Sede Centrale del CAI, e alle offerte degli appassionati, alle vecchie mura di pietra è stata sovrapposta una nuova struttura. 

Dei serbatoi permettono di fare scorta di acqua per l’estate, i posti per mangiare e dormire sono raddoppiati, il lavoro di Eleonora e degli altri è diventato un po’ più redditizio e comodo. Ma il luogo, e le sue suggestioni, sono rimasti quelli di sempre.
All’epoca di Vincenzo Sebastiani, sull’Appennino c’erano ancora i pastori e le greggi, e oltre che a piedi ci si spostava a dorso di mulo. I paesi erano più popolati di oggi, ma arrivarci era un viaggio. Agli escursionisti di un secolo e più fa, quei treni a vapore e quelle traballanti corriere sembravano una promessa di futuro.
La Grande Guerra, per molti, quella promessa l’ha spezzata. L’ingegnere e vigile del fuoco romano morto giovane a Gorizia era uno sportivo dei monti. Nessuno ci potrà mai raccontare se l’atmosfera del rifugio che tramanda ai posteri il suo nome gli sarebbe piaciuta. Ma è bello pensare di sì.  

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