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L’esplorazione sul Kanchenjunga

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Soprannaturale e un po’ sinistro. L’alone di mistero che circonda il Kanchenjunga come montagna sacra, lascia uno strascico anche sulle spedizioni che hanno provato – e poche volte sono riuscite – a salire le sue pareti. Una delle prime a provarci, fu quella guidata da Aleister Crowley, fondatore del moderno occultismo e noto esponente del satanismo.

Crowley, artista inglese noto per le inquietanti attività occulte e le smanie di grandezza, fu anche un attivo alpinista. Inventò un chiodo da ghiaccio, partecipò a una spedizione esplorativa sul K2 e nel 1905 partì per il Kanchenjunga insieme a Jules Jacot Guillarmod, C. Reimond, A. Pache e Irigo De Righi.

Fu proprio questo il primo gruppo di alpinisti che "osò" mettere le mani su quelle imponenti pareti, sei anni dopo che Douglas William Freshfield e il fotografo italiano Vittorio Sella compirono il periplo del massiccio documentandone la geografia.

Ma la spedizione di Crowley si circondò subito di un alone nefasto, e non andò molto lontano. Violenze sui portatori, incidenti mortali e valanghe si abbatterono sul gruppo. Si racconta che durante la notte i membri della spedizione, terrorizzati da quanto stava accadendo, fuggivano dalla montagna. Poco a poco, la spedizione andò in pezzi: la quota massima raggiunta fu di 6.200 metri.

Da allora, passarono cinquant’anni prima che qualcuno riuscisse nell’impresa di toccare la vetta più alta del massiccio. Avvenne, precisamente, il 25 maggio 1955, quando due alpinisti inglesi – George  Band e Joe Brown – vinsero la parete Sud Ovest (Yalung Face). Arrivarono in cima alle tre del pomeriggio, dopo sette ore di scalata da campo 6 posto a circa 8.400 metri, con l’ossigeno suppelementare. Il giorno successivo, anche Norman Hardie (con un teodolite per misurazioni scientifiche) e Tony Streather salirono in vetta.

O meglio, quasi in vetta. Tutti e quattro, infatti, si fermarono pochi metri sotto la vera cima per rispetto alla tradizione locale che la ritiene sacra. Lo aveva promesso il capospedizione George Evans – chirurgo 36enne di Londra – al governatore del Sikkim. E la promessa fu rispettata: quella volta e tutte quelle che seguirono. Si tratta infatti di un’usanza ancor oggi rispettata da tutti gli alpinisti che salgono la montagna.

La discesa, per i primi salitori del Kangchenjunga, non fu facile. Band venne colpito da oftalmia, e il gruppo soffrì per l’esaurirsi dell’ossigeno supplementare. Durante la salita, infatti, gli alpinisti l’avevano consumato quasi tutto: erano stati investiti da una tremenda bufera che li aveva obbligati nelle tende di campo 4 per quasi 60 ore. Ma alla fine, tutto andò bene.

Non fu facile, però, arrivare a questo risultato. Così come non fu facile aprire vie di salita sugli altri versanti nei decenni successivi. Per altri 22 anni, nessuno riuscì più a salire sulla cima. La storia alpinistica del Kanchenjunga rimane costellata di vittime per incidenti, valanghe, pietre cadute, mal di montagna e tempeste di neve.

 

Sara Sottocornola

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