Era il 1950. Ventidue spedizioni di svariate nazionalità avevano tentato di scalare una delle 14 montagne della Terra che svettano oltre il limite degli ottomila metri. Senza successo e con troppi sacrifici. Ma qualcosa stava per cambiare. In Francia, si organizza una spedizione che definire “storica” sarebbe quasi eufemistico.
Viene scelta per l’impresa l’elìte dell’alpinismo francese: la “cordata irresistibile”, formata da Maurice Herzog, capospedizione, Louis Lachenal, Lionel Terray e Gaston Rébuffat, era coronata da nomi come quelli di Jean Couzy, Marcel Schatz, Marcel Ichac, che girò un film sulla spedizione, Jacques Oudot, chirurgo, e Francis de Noyelle, ufficiale di collegamento.
Partita il 30 marzo dalla Francia alla vota di massicci le cui vie d’accesso e di salita erano quasi totalmente sconosciute, la spedizione si riserva di decidere sul campo se tentare la conquista del Dhaulagiri (8.167 metri) o dell’Annapurna (8.091 metri).
Il Dhaulagiri, definito da Terray "coriaceo come un demonio", viene presto scartato. E, dopo un girovagare lungo un mese tra le valli e i ghiacciai nepalesi, la spedizione si dirige verso l’Annapurna, che affronterà dalla parete nord e senza l’ausilio di ossigeno.
La scalata procede veloce, e vengono installati cinque campi intermedi sulla montagna. Alle 6 del mattino del 3 giugno, Herzog e Lachenal partono dai 7.400 metri di campo V, iniziando l’estenuante cammino verso la vetta. Combattendo contro la neve, il gelo e lo sfinimento.
Ma la volontà vince su tutto, e alle 14 i due eroi toccano la vetta, segnando una svolta nella storia dell’alpinismo e dell’esplorazione. Per la prima volta, dei passi umani hanno calcato la cima di un ottomila.
Sono euforici, quasi soffocati dalla gioia. E non immaginano nemmeno lontanamente quale incubo orribile sarà, per loro, la discesa a valle.
Raggiungono campo V, dove li attendono Terray e Rebuffat, con piedi e mani quasi completamente congelati: ad Herzog erano caduti i guanti sulla vetta. Gli sforzi di far riprendere la circolazione servono a poco e i massaggi provocano dolori lancinanti.
Non resta che scendere il più in fretta possibile. All’alba si riparte, ma la carenza d’ossigeno rallenta i riflessi ed aumenta l’irascibilità. Sono in quattro, hanno solo due piccozze per attraversare seracchi che sembrano non finire mai, e solo due sacchi a pelo per bivaccare dentro ad un crepaccio, dove sono costretti a fermarsi al sopraggiungere della notte.
All’alba una valanga li semi-ricopre di neve, seppellendo tutte le scarpe degli alpinisti. Come se non bastasse, Rébuffat e Terray si svegliano ciechi, colpiti da un’oftalmia causata dalla discesa senza occhiali.
La disperazione a quel punto è totale. Lachenal esce a piedi nudi, in preda a dolori infernali, mentre Herzog si prodiga in una delirante ricerca delle scarpe tra i cumuli di neve.
Alla fine, la caparbietà vince e i quattro alpinisti ce la fanno ad uscire dal rifugio, ormai diventato una trappola, e riprendono la terribile discesa.
Giunti al campo base, vengono soccorsi dal medico, che si ritrova di fronte ad una situazione agghiacciante. Il siero anti-congelamento è completamente inefficace e Oudot si ritrova a dover praticare amputazioni una dopo l’altra.
In condizioni disperate, la spedizione francese affronta il lungo trekking di ritorno tra le valli e i corsi d’acqua nepalesi. In patria, li attende un glorioso rientro.
Herzog, oltre che una celebrità, divenne poi ministro per la gioventù e lo sport dal 1958 al 1966, e sindaco di Chamonix.