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Alpinismo: la preistoria

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Quali furono le prime salite disinteressate, fatte solo con l’obiettivo di raggiungere una vetta? Chi furono i primi a legare a futura memoria il proprio nome alle montagne?

Di chi furono le prime salite non funzionali all’attraversamento di un passo per motivi bellici (si pensi ad Annibale che, con gli elefanti, discese in Italia, proveniente dall’Africa e dalla Spagna, probabilmente attraverso la Val di Susa), commerciali (un esempio su tutti è quello della via delle spezie che attraversava le alte e impervie montagne himalayane), migratori (i casi sono innumerevoli ma, per restare vicini, basti quello del popolo Walser che, dal Canton Vallese, nella Svizzera tedesca, migrò a partire dal Medioevo soprattutto nelle valli del Monte Rosa italiano e delle Alpi Lepontine) o di caccia (fino a quasi tutto il XVIII secolo furono i cacciatori di camosci e i cercatori di cristalli i migliori conoscitori e

"Il termine, la vetta
 di quella scoscesa serpentina
 ecco, si approssimava,
ormai era vicina,
ne davano un chiaro avvertimento
i magri rimasugli

di una tappa pellegrina
su alla celestiale cima
Poco sopra
alla vista
che spazio si sarebbe aperto
dal culmine raggiunto…
immaginarlo
già era beatitudine
concessa
più che al suo desiderio al suo tormento.
Sì, l’ immensità, la luce
ma quiete vera ci sarebbe stata?
Lì avrebbe la sua impresa
avuto il luminoso assolvimento
da se stessa nella trasparente spera
o nasceva una nuova impossibile scalata…
Questo temeva, questo desiderava.
(Mario Luzi)

salitori di montagne) e spinte dal solo piacere della vetta o, per meglio dire, della pura e semplice ascensione?

Finita l’era della montagna sacra – era che forse nel cuore di alcuni individui non si concluderà mai e che, certamente, è ancora viva presso altre civiltà – le catene montuose, le Alpi nel caso specifico poiché è ad esse che ci si riferisce principalmente in una storia dell’alpinismo, tardarono ancora prima di diventare oggetto di elaborazione culturale autonoma.

Se da un lato è vero che, al loro interno (inteso sempre come l’interno di una realtà in rapporto osmotico con l’esterno, dunque nient’affatto di chiusura), esse presentavano economie, rituali, dinamiche comunitarie, per non dire tratti psicologici collettivi e sociali, relativamente assimilabili da est a ovest che ne facevano un motivo di unione piuttosto che di divisione (è risaputo che i Walser della Val Formazza considerassero normale attraversare il Passo del Gries e tornare nell’originario Vallese per sbrigare faccende di ordinaria quotidianità o per recarsi dal medico piuttosto che scendere nelle città del fondovalle e di pianura), dall’altro esse furono vissute, soprattutto dai grandi regni Europei, come una barriera.

Una barriera del tutto priva di dignità autonoma e articolazione interna, terra dell’indistinto, oscura, ancor più lontana nella mente degli uomini che nella realtà delle cose.

Al punto che, come avviene per gli universi vaghi e remoti dell’immaginazione che sfuggono al controllo e alle verifiche della ragione, furono considerate a lungo il rifugio dei draghi ritenuti niente affatto animali mitologici.

Certamente non si potrà attribuire il titolo di alpinista a Noè per la sua discesa dall’Ararat, la più alta montagna dell’Anatolia (5165 m.) a est dell’attuale Turchia: intanto perché non si trattò di libera scelta, poi perché la sua fu, appunto, soltanto una discesa, considerato che l’arca si sarebbe arenata su un fianco della montagna: troppo comodo insomma.

Forse uno dei primi casi registrati (e la precisazione non è di poco conto) di ascensione per libera scelta fu quello del poeta Francesco Petrarca. Spinto dall’ammirazione, dunque una motivazione estetica, per non dire estatica, il poeta, nel 1336, salì al provenzale Mont Ventoux (Monte Ventoso).

Dell’episodio è conservata memoria in un’opera della letteratura che non può dirsi "italiana" giacché scritta in latino, nota come Lettera del Ventoso  dalla (‘Lettera a Dionigi di Borgo di San Sepolcro, dell’Ordine di sant’Agostino, professore della Sacra Pagina, intorno ai propri affanni’ tratta dal "Familiarium Rerum Libri"), che potrebbe essere considerato come il primo récit d’ascension, non fosse che l’epistola costituisce non solo il resoconto di un’esperienza reale bensì quello di un percorso metafisico alla vita beata:

"Oggi, soltanto per il desiderio di visitare un luogo famoso per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, che non a torto chiamano Ventoso. […] Partiti nel giorno stabilito, giungemmo la sera a Malaucena, paese alle falde del monte, verso tramontana. Ivi trattenutici un giorno, oggi finalmente, con due servi, facemmo la salita non senza molta difficoltà; poiché la mole sassosa del monte è scoscesa e quasi inaccessibile; ma ben disse il poeta: ‘L’ostinato lavoro tutto vince’. […]. Trovammo in una valletta del monte un vecchio pastore, che con molte parole cercò di dissuaderci dal salire, narrandoci come cinquanta anni fa, preso dal nostro medesimo ardore giovanile, egli era salito sulla cima, e non ne aveva riportato altro che delusione e fatica, e il corpo e le vesti lacerate dai sassi e dai pruni […]. Mentre egli così si scalmanava, in noi – com’è nei giovani, restii ad ogni consiglio – cresceva per quel divieto il desiderio. […] Dopo aver lasciato presso di lui vesti ed altri oggetti che avrebbero potuto esserci d’imbarazzo, soli ci accingemmo all’ascensione e c’incamminammo di buona lena. Ma, come spesso accade, a quel primo grande sforzo seguì presto la stanchezza; sicché ci fermammo su una rupe non molto lontana. Partiti di lì, avanzammo ma più lentamente; io soprattutto m’arrampicavo per il sentiero montano con passi più moderati, mentre mio fratello per una scorciatoia attraverso il crinale del monte saliva sempre più in alto; io, più fiacco, discendevo verso il basso, e a lui che mi chiamava mostrandomi la via giusta rispondevo dall’altro fianco del monte che speravo di trovare un più facile accesso, e che non mi rincresceva di fare una via più lunga ma più agevole. Era questo un pretesto per scusare la mia pigrizia, e mentre i miei compagni erano ormai in cima, io erravo ancora nelle valli, senza che mi apparisse da alcuna parte una via migliore; il cammino diveniva più lungo e l’inutile fatica mi stancava. Finalmente, ormai annoiato e pentito di quegli andirivieni, mi decisi a spingermi direttamente in su […] Avevamo appena lasciato quel colle, ed ecco che, dimentico del mio primo errore, io comincio a ricadere in basso, e di nuovo […] mi trovo in mezzo a gravi difficoltà. […] Così, pieno di delusione, mi sedei in una valle; e lì, passando con l’agile pensiero dalle cose materiali alle incorporee, mi rivolgevo a me stesso con queste o simili parole: ‘Quello che tante volte ti è oggi accaduto nel salire questo monte, sappi che accade a te e a molti, quando si accostano alla vita beata; e se di questo gli uomini non così facilmente si accorgono, gli è che i movimenti del corpo sono a tutti visibili, quelli invece dell’animo invisibili e occulti. La vita che noi chiamiamo beata, è posta in alto; e stretto, come dicono, è il sentiero che vi conduce […]".

 

 
Lorenzo Scandroglio

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