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Le origini dell’alpinismo

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Una nostalgia verticale. Ecco cosa spinge l’uomo verso la scalata delle vette più impervie… 

 

L’irresistibile attrazione che le montagne esercitano su alcuni esseri umani affonda le sue radici in un sentimento romantico per eccellenza ma che fu già di Ulisse: la nostalgia, cioè il dolore generato dalla lontananza della patria e dal bisogno di farvi ritorno (dai termini greci nostos, il ritorno in patria, e algos, dolore o sofferenza).
 
Ulisse sentiva nostalgia per Itaca, sua patria terrena. I mistici sentono nostalgia per il cielo, patria divina. Salendo ci si avvicina al cielo e tutte le civiltà, tutti i miti, hanno collocato in cielo il luogo primo della provenienza della vita e quello della sua ultima destinazione.
 
Insieme alla nostalgia, il desiderio, de-siderum, che nella sua accezione più alta e assoluta è passione stellare, desiderio di stelle, passione generata dalla nostra condizione di esiliati dal cielo e dalle stelle dal momento della caduta sulla terra.
 
Ora, questo non significa che le schiere di escursionisti che si inerpicano sui sentieri montani, i climbers che affollano le falesie e gli alpinisti che artigliano coi ramponi candele ghiacciate siano afflitti da depressione nostalgica o brucino di incontrollati desideri.
 
Nostalgia e desiderio agiscono a livello di psicologia del profondo, avrebbe detto Karl Gustav Jung, secondo una dinamica che può essere più o meno consapevole, più o meno presente, e che varia da individuo a individuo. Dinamica che comunque presiede alla nascita del fenomeno e al suo sviluppo.
 
C’è stato un tempo in cui questa tensione, questo streben (così lo chiamava Goethe nel suo Faust), a volte premeva nei piedi e faceva viaggiare o salire, altre volte premeva nelle mani e faceva scrivere o dipingere o scolpire. Oggi la montagna viene vissuta spesso con atteggiamento assolutamente laico, così come l’arte e la letteratura, senza né mistica né retorica, che pure hanno intriso di sé un lungo periodo storico dell’andare per cime.
 
Quell’eredità, volenti o nolenti, non fosse altro che per ragioni storiche e sociali, appartiene al dna residuale di tutti coloro che oggi si avvicinano al mondo verticale. Certo, l’avvento dell’arrampicata sportiva, la ricerca dei record di salita, le gare di scialpinismo e quant’altro sia entrato nell’ottica agonistica delle competizioni (pur originando dall’alpinismo e dalle sue varianti) ha creato una sorta di homo novus. Una nuova mentalità dell’andare in montagna, su cui ritorneremo trattando le questioni nello specifico.
 
In epoca arcaica e antica, e poi fino al medioevo almeno, l’uomo occidentale non era ancora così alienato dalla natura da sentire la nostalgia di quell’origine siderale al punto di avere bisogno, tanto meno il piacere, di salire le montagne spinto da chissà quale anelito mistico di ricongiungimento o riavvicinamento al divino.
 
La montagna era sacra, dimora del divino come lo fu l’Olimpo degli dei greci. Potenzialmente accessibile ma intoccabile. Temibile e, senz’altro, inutile, considerate le condizioni ostili alla vita e all’agricoltura dell’alta montagna.
 
 
Lorenzo Scandroglio

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