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Montagna d’inverno: il piacere di perdersi (consapevolmente)

Proviamo a mettere in secondo piano i “consigli utili” e tutto ciò che trasforma la montagna in un asettico parco giochi. Potremmo impreziosire la nostra esperienza. Senza rinunciare alla sicurezza

Ad ogni inizio d’inverno un profluvio di informazioni sono indirizzate ai frequentatori della montagna innevata. Si parte da cosa mettere nello zaino e come assemblarlo, come vestirsi, quali sono gli attrezzi indispensabili per ogni disciplina, quali accessori e quali strumenti di comunicazione e autosoccorso impiegare. Seguono a ruota le indicazioni su come orientarsi, con quali dispositivi, digitali e analogici, inclusa l’autonomia delle batterie dei vari apparecchi e il raffronto tra i mille disponibili, “power bank” inclusi. Guide, C.A.I. e i più disparati “influencer” delle nevi inondano i social di buoni consigli.

Armati di tutto questo, una volta immersi nella neve, quanto restiamo in ascolto? Quanto valutiamo costantemente quel che accade, come esploratori veri o, almeno lontanamente, come fanno tutti gli animali selvatici?

Il camoscio, senza nulla di tutto questo, senza tecnologia, senza aver letto nessun manuale, senza aver fatto il corso di scialpinismo, senza rispettare regole o divieti, si protegge al meglio. Nonostante ciò la valanga in qualche raro caso se lo porta via. Così funziona la vita sulla montagna.

Noi, senza pelo, senza zoccoli che si appigliano all’aria, non possiamo minimamente avvicinarci allo stato più alto della consapevolezza del muoversi in natura, rappresentato dalla selvaticità, per questo dobbiamo per forza vestirci d’attrezzi.

Farsi sommergere però, significa sovvertire le priorità con cui ci si relaziona alla montagna d’inverno, che partono dal chiedersi cosa accade attorno a noi? Dove si sta andando? Come ci si sente in questo contesto? Come si fa quel che si fa? Cosa si pensa mentre si sale o si discende?

E’ corretto orientarsi e riferirsi costantemente a un sistema di coordinate, basato sulla geometria della griglia, anche se a volte vien da rimpiangere la cartografia antica, qualcosa che si avvicina di più ad un racconto, che lascia ampio spazio all’incertezza, allo stupore e alla memoria.

Distanze non in scala e riferimenti ambientali deformati e ingigantiti rappresentano i luoghi così come sono percepiti dall’individuo che li percorre.
Profili di rocce caratteristiche, alberi, case e torrenti, sono evidenziati come elementi e parametri vissuti entro una storia.
A volte impiegare una mappa del “racconto” al posto delle consuete carte topografiche, può aiutare a migliorare la nostra percezione del territorio.

Perdersi (consapevolmente) è considerato come un inutile spreco di tempo. Così facendo molto spesso rinunciamo ad una preziosa occasione di conoscenza. Una perdita consapevole della via, dopo aver scelto un contesto adatto, commisurato alle capacità di ognuno, acuisce invece i nostri sensi e spesso ci rende più ricchi e soddisfatti, oltre a farci addirittura arrivare qualche volta prima a destinazione.

La comunicazione mainstream pare invece orientata a suggerire il miglior articolo utile a muoversi e performare al meglio in un campo sportivo dove trascorrere piacevoli ore di svago.

Ma è ragionevole trasformare l’esperienza in natura in un campo da gioco? Dove è più facile dettare le regole che promuovere una autentica cultura dell’ambiente, utile a cogliere l’eccezionalità del nostro scivolare sulla neve ed entrare in sintonia con l’ambiente che ci circonda.

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