Piolet d’Or 2024: Cornell, Marvell e Rousseau raccontano la loro impresa sulla Nord dello Jannu
L’ascensione dei tre statunitensi, vincitrice del prestigioso riconoscimento internazionale, insegna che è possibile esplorare i pur consueti “orizzonti di ghiaccio” in maniera sempre nuova
Un biglietto andata e ritorno per l’orizzonte di ghiaccio. Se si dovesse condensare in un’unica frase l’incredibile esperienza di Matt Cornell, Jackson Marvell e Alan Rousseau sullo Jannu dovremmo senz’altro utilizzare queste dieci parole. Un biglietto di andata e ritorno – come il nome stesso della via che hanno aperto, Round Trip Ticket – per l’orizzonte di ghiaccio, un concetto che a più riprese, durante la cerimonia di premiazione ai Piolets d’Or dello scorso 10 dicembre, i tre hanno indicato come loro generale obiettivo, più mentale che fisico, in ogni ascensione.
Quell’orizzonte di ghiaccio tanto caro a Reinhold Messner, il quale vi ha dedicato il titolo di un suo celebre libro, oggi diventato cult. In Orizzonti di ghiaccio infatti – edito da De Agostini nel 1982 – l’alpinista altoatesino indicava in questa particolare espressione “il simbolo dell’estremo confine del mondo e dell’intimo confine dell’io”. Allo stesso modo, lo statunitense Matt Cornell ha dichiarato come lui e suoi compagni, durante la spedizione sullo Jannu, abbiano «perso, consumati dalla scalata, il significato stesso della nostra individualità».
Ma si badi bene: nel senso più positivo del termine, ovvero la capacità di esplorare in maniera così insistente il confine con il proprio io da mescolarlo a quello dei compagni, portando a termine un lavoro di squadra intenso e fruttifero. L’insistenza e l’intensità sono state d’altronde due caratteristiche alla base di quest’impresa, sognata da Jackson Marvell e Alan Rousseau già a partire dal 2021.
La parete “impossibile”
Ma andiamo con ordine. La parete nord dello Jannu – straordinaria vetta posta sul confine fra Nepal e Sikkim, a 7.710 metri di altezza, nell’area del Kangchenjunga – è stata lungamente considerata come la più grande sfida ancora aperta in Himalaya, definita da chi la tentò per primo, l’alpinista nizzardo Jean Franco, come «una delle pareti più alte del mondo: nessuno ci salirà mai». A smentirlo furono ben due tentativi, successivi a quello di Franco e precedenti a quello americano. Nel 1976 fu infatti aperta una prima via da un team giapponese – che però non saliva interamente la parete, appoggiandosi piuttosto allo spigolo nord-est – mentre, nel 2004, vi fu la celebre quanto controversa salita firmata da un’affollatissima spedizione russa: 10 alpinisti, 50 giorni, corde fisse disseminate ovunque e ossigeno supplementare.
Eppure, il team capitanato da Alexander Odintsov si aggiudicò, proprio grazie a quest’ascensione, il Piolet d’Or di quell’anno. «Se avessimo provato a salire questa parete in stile alpino avremmo dovuto vivere per un mese a 6.500 metri. – aveva dichiarato allora Odintsov – Nella nostra situazione, nella società mondiale degli alpinisti, tutti possono capire che era impossibile. Non è possibile trovare un essere umano che possa vivere a settemila metri così a lungo, su una parete e su difficoltà come quelle dello Jannu. Salirla in stile alpino non è umanamente possibile». A dimostrare il contrario, vent’anni dopo, Matt Cornell, Jackson Marvell e Alan Rousseau.
Il primo tentativo nel 2021
«Nel 2021 – racconta Jackson Marvell – Alan ed io avevamo avuto l’idea di provare a ripetere la via dei russi in stile alpino. Tuttavia, durante l’esplorazione della parete, abbiamo notato una possibile linea alternativa, che attraversava a destra per raggiungere la cresta nord-ovest a circa 7.500 metri di quota». I due decisero dunque di provare quel nuovo itinerario, evitando così le vecchie corde fisse e le attrezzature lasciate lungo la via dalla spedizione russa.
La cresta nord-ovest era già stata scalata in stile alpino nel 2007 da Valery Babanov e Sergey Kofanov, il quale aveva subito dichiarato che, qualora un giorno qualcuno fosse riuscito ad aprire una via diretta sulla parete nord in stile alpino, avrebbe dovuto «accettare l’idea che si tratti di un biglietto di sola andata», a conferma di un’impresa tanto difficoltosa, soprattutto dal punto di vista tecnico, da poter lasciare davvero poco margine di errore. Proprio quella frase di Kofanov – “biglietto di sola andata” – sarà poi d’ispirazione a Cornell, Marvell e Rousseau nel dare il nome alla loro via. «Alla fine io ed Alan ci siamo dovuti fermare a circa 7.200 metri, – prosegue Jackson – dopo aver comunque accumulato preziose conoscenze sulla via».
Dopo quel primo tentativo, i due pensarono fin da subito di coinvolgere una terza persona, facendo del gioco di squadra una delle chiavi vincenti per realizzare l’impresa. Tornarono dunque sulla montagna nel 2022, insieme a Matt Cornell. Marvell però dovette ripartire prima, mentre Alan e Matt non riuscirono ad andare oltre i 6.500 metri a causa di venti forti e temperature tremendamente rigide.
Finalmente il sogno si realizza
«Non c’è due senza tre: tornammo nel 2023, – continua il racconto Alan – al netto di un bel po’ di attività fatta insieme sulle montagne di casa, fra cui la scalata in Alaska del Mount Dickey, dove abbiamo aperto la via di misto Aim for the Bushes».
Forti pertanto di alcuni mesi estremamente allenanti alle spalle, i tre lasciarono il campo base dello Jannu il 7 ottobre del 2023. «Il materiale che avevamo era leggerissimo, soprattutto quello da bivacco. – spiega Matt – Si trattava nello specifico di due capsule gonfiabili della G7, che sostituivano i tradizionali portaledge: sostanzialmente dovevamo portare con noi appena tre chili di materiale da bivacco invece degli otto cui eravamo abituati».
L’attrezzatura minimale ha permesso ai tre di affrontare in estrema leggerezza dapprima uno sperone di roccia e poi i successivi 300 metri di cascata di ghiaccio, per raggiungere, il 9 ottobre, attraverso un ripido sistema di rampe fra neve, ghiaccio e misto, i 7.100 metri, poco più sotto rispetto al punto massimo cui erano arrivati Alan e Jackson nel 2021.
«Da lì in poi – racconta Matt – la parete era praticamente inviolata, soprattutto nella sezione più ripida, sulla destra, che avevamo individuato. In poco tempo raggiungemmo i 7.300 metri, per poi affrontare il giorno successivo il tratto chiave dell’itinerario: una sottile lastra di ghiaccio verticale seguita da una sezione di arrampicata su misto. Da lì abbiamo deciso di bivaccare ad appena un tiro dalla cresta nord-ovest, a 7.500 metri di quota».
Il giorno seguente, Matt, Jackson e Alan hanno concluso la via francese del 1983, raggiungendo la vetta dello Jannu nel tardo pomeriggio, tornando alle portaledge verso le undici di sera e al campo base intorno alla mezzanotte del giorno successivo.
«Io e Jackson sapevamo già durante l’ultimo bivacco in parete di avere diverse dita congelate – prosegue Alan – ma tenemmo duro, almeno fino al campo base. Il giorno dopo ci rendemmo conto che per tornare “alla civiltà” mancavano però altri cinque giorni di trekking e tre giorni di guida fino a Kathmandu. Il pericolo di infezione rischiava di aumentare, avendo davanti a noi ancora così tanto tempo. Decidemmo dunque di chiamare un elicottero e, una volta arrivati a Kathmandu, ci sottoponemmo subito ad un trattamento endovenoso in una clinica che lo offriva, al fine di limitare sensibilmente i danni». Effettivamente funzionò, determinando la perdita della sola punta di un mignolo per entrambi gli scalatori.
Ma la cosa più curiosa fu la percezione, durante l’intera salita e da parte di tutti e tre i membri della cordata, di una quarta persona impegnata nella scalata con loro.
«Sì, fu una sorta di allucinazione collettiva. – spiega Jackson – O qualcosa di sovrannaturale, al di là di ogni nostro controllo. Accadde soprattutto negli ultimi due giorni: percepivamo, ascoltavamo e accettavamo la sua presenza senza doverne discutere. Non so descrivere con precisione questo fenomeno ma sta di fatto che una sorta di angelo custode lo avevamo davvero con noi: alla fine dell’ultima doppia, ci erano rimasti solo un camalot e tre stopper. Se avessimo avuto bisogno di fare altre calate, saremmo rimasti bloccati in parete».
Al di là di ogni oscura – o luminosa – presenza, con questa salita allo Jannu è stato definitivamente scritto un nuovo capitolo nella storia delle ascensioni himalayane, di sicura ispirazione per le generazioni future. Il tutto grazie ad una combinazione di grande lavoro di squadra, strategia visionaria, abilità tecnica e notevole esperienza, oltre che ad una determinante evoluzione nell’attrezzatura.
Alla domanda riguardante le analogie e differenze rispetto alla spedizione russa di vent’anni fa, i tre sono netti ed onesti. «Analogie nessuna, differenze moltissime. – commenta Alan – Ma questo dimostra come l’alpinismo sia davvero e sempre in esponenziale crescita, sia per quanta riguarda la creatività degli approcci che la considerazione di quello che è o non è possibile realizzare. Probabilmente aveva ragione Alexander Odintsov: nel 2004 non ci saremmo riusciti. Per questo nutro grande rispetto per lui e per la sua spedizione, nonostante sia lontana anni luce dal nostro approccio a questa parete».
Che due approcci tanto diversi alla stessa parete siano riusciti a vincere, a vent’anni di distanza, lo stesso premio è d’altronde sintomatico di un alpinismo in continua trasformazione, che accetta i propri cambiamenti senza rinnegarne le contraddizioni e assumendole invece come parte di un processo di crescita decisamente più ampio. Capace di esplorare gli stessi “orizzonti di ghiaccio” in maniera sempre nuova e, fino a qualche tempo prima, inimmaginabile.