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A tu per tu con Aaron Durogati, dal parapendio allo sci ripido (e ritorno)

Il fuoriclasse altoatesino del Team Salewa si racconta, tra competizioni, combo alpinistiche e avventure fra le montagne di tutto il mondo. Quasi pronto il film di cui sarà presto protagonista

Aaron Durogati, trentottenne meranese, è il campione di parapendio che il mondo ci invidia e che abbiamo intervistato in occasione di Mese Montagna, rassegna capace di portare ogni anno nella Valle dei Laghi, in Trentino, alcuni dei più importanti alpinisti ed esploratori internazionali. Vincitore di due mondiali – il primo nel 2013 in Colombia e il secondo nel 2017 in Brasile – ha vissuto sulla propria pelle le trasformazioni di uno sport tanto affascinante quanto in costante crescita. Una crescita che vede oggi l’imporsi delle competizioni hike and fly sulla scena mondiale: una fra tutte, la Red Bull X-Alps. 1.200 chilometri attraverso le Alpi, da percorrere a piedi e volando, in quella che è un’autentica prova di forza, resistenza e audacia, programmata ogni due anni e a dominare la quale, praticamente da sempre, c’è Christian “Chrigel” Maurer: campione svizzero, classe 1982, che proprio nel 1986, mentre Aaron nasceva, volava insieme al padre per la prima volta.

Aaron, come e dove hai cominciato?

Rispondere al dove è piuttosto facile: a Merano. Partendo dai decolli che sovrastano la mia città natale, ho avuto la fortuna e il privilegio di poter volare già a sei anni, anch’io in biposto insieme a mio padre. Sempre a Merano, ho in seguito cominciato a fare le prime planate per conto mio. È una città che si presta molto per iniziare: la meteo è quasi sempre buona, il che significa che ogni giorno è potenzialmente volabile, e le funivie ti permettono di raggiungere i decolli più velocemente che in altri contesti. Da adolescente prendevo il motorino, partivo la mattina e rientravo la sera, continuando a decollare e atterrare, decollare e atterrare, per tutto il giorno senza annoiarmi mai.

Tuo padre era un buon pilota?

Direi di sì, ma non propriamente un pilota da competizione. Ha fatto diverse gare nella sua vita, ma più per divertirsi. Io invece ricordo nitidamente che, da quando ero bambino, avevo questo enorme desiderio di gareggiare in Coppa del mondo, di vincerla e di diventare quello che sono oggi.

Già dopo quel primo biposto?

Praticamente sì. Anche se, dopo quel primo tandem, non ho avuto moltissime altre occasioni di poter volare con mio padre. Per fare un confronto, mio figlio ha volato con me, per la prima volta, a due anni e adesso – più o meno una volta alla settimana, quando non addirittura due – voliamo ancora insieme. Io, con mio padre, avrò fatto forse dieci voli in tutto. E questo perché, fin da subito, il fatto di essere passeggero in un biposto mi faceva quasi più paura rispetto all’idea di volare da solo.

In che senso?

Volare insieme a lui mi piaceva. Il timore nasceva perché sentivo di non avere il controllo della situazione. Mi dovevo affidare totalmente alla sua esperienza, senza potermi creare già la mia. In questo senso, anche se ancora non ne avevo le capacità, mi sarei fidato molto di più a volare da solo.

Prima di poterlo fare però, ottenendo il brevetto, hai coltivato in parallelo altri sport.

Sì. Diciamo che il mio sport principale è sempre stato lo sci, di cui sono anche maestro. Poi verso i quindici anni ho cominciato a fare skate, una disciplina che mi piaceva moltissimo, ma nella quale mi facevo anche tanto male. Fu proprio dopo l’ennesimo infortunio in skateboard che mi convinsi a prendere sul serio il parapendio: allora il tempo che non passavo più in strada, lo trascorrevo per aria.

E nel mentre continuavi a mantenere un buon livello anche sugli sci.

Esatto. Questo approccio ibrido allo sport mi ha accompagnato sempre e continua ad accompagnarmi. Per realizzare il sogno che avevo fin da bambino, ossia vincere la Coppa del mondo nel parapendio, ho dovuto mettere insieme tanto volume di volo, stare parecchie ore in aria, e c’era ben poco spazio per altro. Nei primi dieci anni della mia carriera dunque non c’era posto per l’avventura, perché ero focalizzato su un obiettivo ben preciso, più sportivo. Lo sci c’è sempre stato, ovviamente, ma tutta la parte esplorativa ed alpinistica che sto coltivando in questi ultimi anni è uscita solo più tardi, quando sono riuscito a vincere i mondiali.

Era il 2013, eravamo in Colombia, e da lì in poi il mio modo di approcciare il parapendio e di frequentare la montagna ha subito una grandissima evoluzione. Detto questo, avevo dalla mia delle buone basi di alpinismo. Pensa che uno dei miei zii, che non ho mai conosciuto ma di cui sentivo le storie da piccolo, era Renato Reali, storico compagno di Heini Holzer, il che mi ha molto ispirato per quanto riguarda lo sci ripido. Poi da quando ho vinto la Coppa del mondo mi sono aperto ad altre cose, la prima delle quali è stata la Red Bull X-Alps: il contesto di gara la rendeva un qualcosa di motivante, ma l’impresa che come atleti siamo chiamati a portare avanti resta, nel complesso, più un’avventura che una gara. Con le basi fisiche che ho allenato per la X-Alps, ho potuto fare cose molto interessanti in montagna, combinando infine il parapendio con l’alpinismo.

E lo hai fatto dapprima nelle Alpi e successivamente in Pakistan e in Patagonia.

In Pakistan, nel 2022, sono riuscito a firmare il record asiatico, volando ininterrottamente per 312 chilometri. Ma è stato molto più che un semplice exploit: sorvolare un ghiacciaio come quello in Karakorum, con un’estensione di almeno 100 chilometri, significa non avere alcun margine di errore, perché se ti accade qualcosa difficilmente riusciresti ad uscire di lì.

Un altro record che hai tentato è stato quello, nel 2019, al Cerro Torre.

L’idea era quella di decollare dalla cima, ma le condizioni meteo non erano dalla nostra parte. Allora, con Daniel Ladurner, Mirko Grasso, Jacopo Zezza e Edoardo Albrighi, abbiamo optato per un’alternativa altrettanto succulenta: salire la Aguja Saint Exupery, dalla quale sono poi riuscito a decollare mentre i miei compagni si sorbivano ore e ore di doppie, facendo in tutto 35 calate, di appena 30 metri per paura che si aggrovigliassero le corde.

Un’impresa, quella al Torre, che invece è riuscita l’anno dopo a Fabian Buhl. In questi continui tentativi di record, alla luce di uno sport in continua evoluzione, c’è tanta competizione fra voi piloti?

Dici bene: si tratta di una continua evoluzione. Ed io, avendo cominciato nei primi anni Duemila, ho avuto il privilegio di cambiare e crescere insieme ai cambiamenti recenti e alla crescita di questa disciplina. Come in ogni nuovo sport che si rispetti, anche l’hike and fly, o il climb and fly, sono in una fase di esponenziale affermazione. Ma anche di continua sperimentazione e questo rende tutti i piloti abbastanza coesi nell’affrontare insieme le trasformazioni, al di là dei singoli protagonismi. Tant’è che proprio l’hike and fly è diventata la disciplina più prestigiosa del volo libero, laddove le gare di volo in parapendio più tradizionali, quelle di lunga distanza, stanno subendo una perdita d’interesse, sia a livello di partecipazione che di sponsor.

L’hike and fly forse si è affermato proprio perché capace di mettere insieme due discipline, interessando anche gli sponsor extrasettore?

Sicuramente. La parte di camminata dell’hike and fly rende il parapendio più appetibile sul mercato. Allo stesso modo, fortunatamente, stiamo sdoganando un preconcetto rischiosissimo: quello che vede cioè il parapendio non soltanto come uno sport estremo ma anche come qualcosa di inesorabilmente pericoloso.

Non lo è?

Non più dello sci. È bene avere a mente che si tratta di uno sport estremo, ma alla pari di tantissimi altri. Le nuove tecnologie aiutano i piloti a gestire il rischio e i produttori delle vele odierne, che sono sicuramente più leggere e performanti, stanno investendo tuttavia anche molto nella loro facilità di utilizzo. Questo lo rende meno rischioso di quello che solitamente le persone immaginano.

Negli ultimi anni il tuo spirito esplorativo ti ha portato a scoprire anche un’altra disciplina, sempre affine al parapendio.

Sì. È da circa sette anni che ho cominciato a praticare il base jumping. Dapprima in un ambiente relativamente controllato, effettuando cioè dei lanci sganciandomi da un parapendio biposto e in aria libera, poi cominciando a cercare exit sempre più difficili ma alla mia portata. Negli ultimi due anni sto investendo molto nel base e mi piace. Qualche mese fa mi sono lanciato dalla Torre Trieste, dopo aver scalato la via Tissi con alcuni amici.

Anche tu non resisti al fascino delle Dolomiti: un’altra bella esperienza recente è stata quella sulla Torre Venezia.

Appena qualche settimana fa, in biposto con la mia fidanzata. L’idea mi è venuta proprio in seguito al lancio dalla Torre Trieste: in prossimità della cima di Torre Venezia avevo visto questa ripida pietraia che finiva su una parete verticale di 600 metri. Mi sembrava un decollo ideale, nonostante il rischio che qualche cordino s’impigliasse nelle rocce. Condividere quest’esperienza di arrampicata e volo con Johanna è stato meraviglioso. Ma in generale è vero: riscoprire le montagne di casa ha un valore molto importante per me. Come la scorsa primavera, quando sono riuscito a mettere in saccoccia una tre giorni davvero esaltante.

Il primo giorno sono decollato dal Col Rodella, atterrando in cima alla Marmolada per poi sciare lungo la nord ovest in condizioni stupende. In quel momento, un po’ come accaduto per la Torre Venezia dalla Torre Trieste, ho adocchiato delle condizioni davvero incredibili anche sul Gran Vernel. Il giorno dopo sono allora decollato dal Sella e, dopo essere atterrato in parete sul Gran Vernel, ho sciato lungo la nord est, itinerario per me molto iconico. Il maltempo mi ha costretto a fermarmi il terzo giorno, ma il quarto sono riuscito a decollare dal Pordoi al mattino, planando fino alla base della nord ovest, sempre del Gran Vernel. Di lì ho scalato fino in cima per poi ripetere la celebre discesa di Tone Valeruz. Arrivati in prossimità dei primi due tiri di misto della via, con il mio socio abbiamo deciso infine di ridecollare per toglierci la parte più brutta e pericolosa della calata.

Mettere insieme sci e parapendio, in fondo, sembra essere la cosa che ti diverte di più.

È la combinazione di quello che so fare meglio: gestire una vela e usare gli sci. Questo mi dà la possibilità di giocare, come in un videogame. Faccio due curve con gli sci, poi mi alzo in volo per spostarmi dove la neve è migliore. Fare questo genere di cose mi piace davvero molto.

Prossimi progetti in cantiere?

Il 2025 sarà di nuovo l’anno della Red Bull X-Alps, dunque mi voglio concentrare molto per la gara. In quest’ultimo periodo sono stato occupato con la realizzazione di un film in virtual reality per Meta, che uscirà a breve. Abbiamo girato per più di sei mesi: in parte sulle Alpi, a Chamonix e a Zermatt, in parte in Dolomiti e in parte in Pakistan.

Nell’attesa di poterti vedere, sia in gara che in questo nuovo affascinante progetto, c’è un’ultima domanda. Cosa ti ha insegnato, per la tua vita quotidiana, il volo?

Volare ti dà la possibilità di vedere tutto da un’altra prospettiva e quindi forse direi proprio questa cosa qui: poter provare, anche nella vita di tutti i giorni, a guardare le cose da punti di vista sempre nuovi e differenti.

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