Vado a vivere in rifugio: bella idea, ma la realtà è ben diversa da quanto sognato
Il magnifico romanzo La strangera di Marta Aidala racconta senza sconti le difficoltà, anche relazionali, che incontra chi finalmente è riuscito a coronare il sogno di vivere in quota. Ostacoli non insormontabili, ma comunque severi e spesso imprevisti
Il sogno (l’illusione) neo-ruralista non è mai morto. Anni fa si diceva “vado a vivere in campagna” e magari qualcuno lo faceva, per accorgersi in breve tempo di aver barattato la metropoli caotica e inquinata con un posto umido e solitario, pieno di animaletti molesti e con scarso segnale Tv. Oggi invece tirano molto le “aree interne”, cioè quei luoghi lontano da tutto dove la Rete è un pio desiderio (a volte ci soccorre Eolo, ma non dappertutto) e le strade alternano le buche alle curve mortali. Gli animaletti anche lì sono onnipresenti. Nelle “aree interne” vive comunque un quarto della popolazione italiana, quasi quindici milioni di persone. La metà di loro anela la metropoli (non è una battuta: basta guardare i dati di spopolamento delle province appenniniche).
Tendenza ancora più contemporanea: salire di quota. Il neo-ruralista estremista pensa al rifugio, confortevole magari come il capitello della colonna per lo stilita, ma snob il giusto. Ho appena letto di una coppia belga che gestisce un rifugio in Val di Togno (valle della cui esistenza, colpevolmente, non sapevo), ma se controllate su YouTube è una casetta molto chic, altro che rifugio. La vera “capanna alpina”, che garantisce la genuinità del nostro piano B, deve essere spartana, deve far soffrire. A voce, magari a cena dopo qualche bicchiere con gli amici, possiamo far finta che un domani, forse, chissà…, in realtà non è una scelta per tutti.
La scelta eroica di fare lo stilita ce la racconta, in tutta la sua crudezza, un romanzo che è uscito qualche settimana fa, e di cui consiglio vivamente la lettura. Si intitola La strangera (Guanda) ed è firmato dalla giovane torinese Marta Aidala. Si tratta di una storia in parte autobiografica, perché Marta davvero ha trascorso una stagione lavorando in un rifugio ed entrando in tutti i meccanismi, organizzativi ma anche relazionali, della vita del rifugista. Ma gli amori, i contrasti, il paesaggio, i dialetti, i personaggi con le loro forze e debolezze sono fiction, un’ossatura costruita con mano già matura, che tiene alta la tensione narrativa dalla prima all’ultima pagina. A mio parere, è uno dei migliori romanzi di montagna di questo millennio.
Ma al di là dell’efficacia della scrittura, sono importanti in questo libro i temi: il disagio, l’estraniamento, l’incanto e la disillusione della montagna. Marta Aidala non ci fa sconti, non cede mai al sentimentalismo: nel suo racconto il lavoro in rifugio alterna settimane di entropia (quando la montagna là fuori scompare, e l’unica pausa è una sigaretta serale sotto le stelle) a lunghi giorni vuoti, che inducono a depressive meditazioni sulla validità delle proprie scelte. Vediamo la protagonista vorticare tra i tavoli, con i piatti di polenta e i mezzi litri di vino, destreggiarsi nel bucato di decine di tovaglie e lenzuola, scontrarsi con la ruvida personalità del rifugista, solidarizzare con i colleghi (o compagni di pena), innamorarsi di un pastore, soffrire per un vecchio lupo, disamorarsi, fuggire. Il suo soprannome, strangera (straniera nel dialetto locale), dice tutto sul grado di possibile integrazione. E lei si difende: in montagna, dice, siamo tutti strangeri. Non c’è quasi possibilità di dialogo, tra esseri umani e tra l’uomo e la natura: fino al dramma che inevitabilmente si compie e decide per il destino di tutti.
Dunque, se ci sentiamo un’anima neo-rurale, se vogliamo fuggire verso l’alto, facciamolo pure, è nostro diritto. Ma prima confrontiamoci con questa strangera. E pensiamo a chi davvero vogliamo essere.