36 vedute del Monte Fuji: i capolavori di Katsushika Hokusai
L’artista giapponese realizzò i suoi ukiyo-e a partire dal 1830. Le cosiddette “immagini dal mondo fluttuante” dovevano essere opere d’arte alla portata di tutti. E ancora oggi sono apprezzate in tutto il mondo
Nella storia dell’arte mondiale, il tributo più importante reso a una montagna reca la firma di un artista giapponese, Katsushika Hokusai (1760-1849). Anche chi non sa nulla di arte orientale avrà visto – magari senza saperlo – la sua stampa più celebre, “L’onda presso la costa di Kanagawa”, nota più semplicemente come “La grande onda”, dove dietro la spumeggiante massa d’acqua in movimento si intravede in lontananza la sagoma della montagna simbolo del Giappone: il Monte Fuji (3776 m). Quest’opera, un ukiyo-e (letteralmente “immagini dal mondo fluttuante”), cioè una stampa artistica molto in voga nel periodo Edo, tra il 1600 e la fine del 1800, fa parte del ciclo “Trentasei vedute del Monte Fuji”, che il pittore e incisore Hokusai con il suo editore progettava di ampliare fino a 100, anche se ne realizzò effettivamente soltanto 46. Siamo intorno al 1830. Edo, la futura Tokyo, è una città già in espansione, con una classe di commercianti e di artigiani in crescita. Le stampe ukiyo-e sono indirizzate a questo target: non trattandosi di opere uniche dipinte a mano, erano economicamente abbordabili da chi chiunque avesse una disponibilità economica minima. Inoltre, gli ukiyo-e mettevano in scena il mondo di riferimento urbano della nascente borghesia locale: attori, geishe, prostitute, personaggi tratti da leggende popolari, scene di vita cittadina, e persino rapporti sessuali espliciti (non c’è da stupirsi: il Giappone non cristiano non aveva il senso del peccato della civiltà occidentale).
In questo contesto, si sviluppa un filone paesaggistico dell’ukiyo-e, che è lo stesso Hokusai a inaugurare. Non che i paesaggi non esistessero nelle stampe antecedenti alle sue vedute del Monte Fuji, erano però solo uno scenario. Con queste serie, invece, la montagna e il paesaggio diventano protagonisti, con parità dignità delle figure umane. Qualcuno si chiederà perché l’artista abbia scelto proprio il Monte Fuji. La risposta è piuttosto semplice: è la cima principale del Giappone, la prima a essere raggiunta dal sole che sorge al mattino, una vetta con un grande valore simbolico e culturale. Nella religione shintoista, il nostro astro è la dea Amaterasu, massima divinità del pantheon giapponese e antenata della famiglia imperiale. Il Fuji è un vulcano: nato circa 25 mila anni fa, ha assunto la sua forma attuale nell’8000 a.C. Attualmente è silente, ma non è morto. Si ricorda un’eruzione drammatica nel 864 d.C., che devastò a tal punto i territori limitrofi da suscitare le ire del governatore dell’epoca. La colpa, a suo parere, era dei sacerdoti di un tempio ai piedi del vulcano, costruito nell’806, che non avevano officiato correttamente i riti dovuti alla montagna. Forse per propiziarsi il gigante che eruttava lava e lapilli, i giapponesi avevano inventato una leggenda, che sicuramente anche Hokusai conosceva. La bellissima Kaguya Hime, una trovatella in un bosco di bambù, aveva sposato il governatore locale. Un giorno la giovane rivela al marito di essere la Signora Immortale del Monte Fuji e di dover tornare al Palazzo degli Immortali in vetta alla montagna. Prima di scomparire, in quest’era antecedente alla fotografia, gli dona uno specchio magico in cui scorgere la sua immagine. Il marito solo e disperato sale in cima al Fuji e si getta nel cratere. Il suo cuore affranto dà fuoco allo specchio e la combustione genera il fumo che esce dal cono del vulcano. Fin qui, il mito. Chissà se fu lo specchio di Kaguya Hime a provocare l’ultima grande eruzione del 1707, ricoprendo di cenere la futura Tokyo.
A differenza dei bhutanesi, che vietano l’ascesa alle montagne sacre per rispetto del divino, i giapponesi hanno da sempre avuto un rapporto diverso con la vetta più importante, il Fuji. L’ascensione è un atto di contemplazione, quindi consentita. La prima salita nota risale al 700 d.C.: a compierla è il leggendario fondatore della setta Shugendo, l’asceta En no Gyoja. I suoi seguaci intorno al XIV secolo creano la prima via di salita al Fuji sul fianco meridionale. Sono loro, noti come yamabushi – monaci eremiti che vivevano in montagna – a iniziare a portare le persone in vetta al Fuji e a costruire le prime capanne per i pellegrini. Gli yamabushi mantengono il controllo delle ascese fino all’inizio del XVII secolo, quando incominciano ad aprirsi nuove vie. Salire sul Fuji incomincia a diventare una moda sulla scia di Jikigyo Miroku, un devoto che effettuava l’ascensione fin da bambino tutti gli anni, e che nel 1733 si sacrificò in vetta per porre termine a una carestia. Da allora, Edo inizia a pullulare di associazioni di pellegrini e la montagna diventa scenario di processioni. È questo il contesto culturale in cui Hokusai decide di lanciare sul mercato delle stampe le sue vedute a colori del Monte Fuji, affiancate poi dai tre volumi delle “Cento vedute del Monte Fuji”, ritenute un capolavoro assoluto dell’incisione monocroma. Katsushika Hokusai fa breccia anche nel cuore degli europei della seconda metà dell’Ottocento. I tre volumi delle “Cento vedute” vengono pubblicati in Inghilterra nel 1880, mentre Francia escono qualche anno dopo ben due biografie dell’artista nipponico. Il Fuji ormai non è più solo la montagna iconica dei giapponesi, ma diventa un’esotica vetta nota anche agli appassionati d’arte occidentali.
Oggi a Tokyo c’è il Sumida Hokusai Museum in cui sono esposte alcune dei più celebri vedute del Monte Fuji firmate da Hokusai. Non è necessario, però, andare in Giappone. Una copia della “Grande onda” si trova anche al museo Chiossone di Genova, e spesso musei italiani ed europei propongono mostre sugli ukiyo-e che includono anche alcune delle celebri vedute di Hokusai.
Fuji: una montagna sotto assedio
In Giappone dovete andarci, invece, se volete salire sul Monte Fuji, per ammirare l’alba dalla vetta o camminare lungo l’orlo del cratere. Oggi esistono ben quattro sentieri per l’ascesa, aperti dai primi di luglio ai primi di settembre. Scordatevi però l’idea di un’esperienza mistica. Ogni anno d’estate il Fuji è scalato da migliaia di persone e il rischio è quello di camminare in coda sul sentiero come fra le calli di Venezia. La montagna sacra giapponese, che è sito Unesco dal 2013, è infatti afflitta dal fenomeno dell’overtourism, l’eccesso di visitatori che snatura molti luoghi del pianeta. Per tentare di arginare il fenomeno, le autorità hanno cercato di correre ai ripari imponendo dopo la quinta stazione del sentiero Yoshida un biglietto di 2000 yen (12 euro) e un limite di 4000 ingressi al giorno. Inoltre l’accesso viene chiuso ai gitanti giornalieri dopo le 16. Possono procedere solo coloro che hanno una prenotazione per la notte in uno dei rifugi. L’idea è anche quella di scoraggiare le file notturne di turisti. Per quanto la salita al Fuji non sia particolarmente difficile, i pronto soccorso della zona si riempiono di visitatori impreparati che sottovalutano i rischi dell’ascesa al vulcano. Non solo cadute accidentali e fratture, ma anche problemi respiratori, legati a salite troppo veloci, che provocano mal di montagna.