In cordata

La montagna non è assassina. E neppure l’orso

Le cronache di questi giorni riportano graniti e plantigradi sul banco degli imputati. Ma ancora una volta l’accusato è colpevole soltanto di fare il proprio (legittimo) mestiere

Ancora è presto per dire se sarà un’estate di grandi incidenti. I quotidiani li riportano metodicamente con la solita dovizia di particolari: nulla di nuovo, la montagna assassina fa notizia fin dai tempi di Emile Rey, la cui morte (1895) ai piedi del Dente del Gigante venne eroicamente cantata da Carducci, e di Paul Hervieu, che con L’Alpe homicide (1886) scrisse il prototipo della letteratura alpino-funeraria. Anch’io leggo le cronache e mi sembra che tra i pericoli della montagna, oltre ai soliti crepacci, torrenti in piena, crolli, valanghe, fulmini e saette, la vera novità degli ultimi anni siano gli orsi, che si fanno sempre più confidenti, curiosi, affamati. L’orso è un soggetto interessante: lo mettiamo tra i pericoli oggettivi o soggettivi? Sì, perché di per sé il plantigrado se ne starebbe tranquillo per i fatti suoi, ma se gli offri un cassonetto ricco di prelibatezze e lo avvicini con comportamenti per lui incomprensibili (tipo pedalare su un sentiero o inquadrarlo con il cellulare), diventa un problema. Un po’ lo stesso si potrebbe dire dei funghi: il soccorso alpino si muove più spesso per i cercatori di porcini che per gli alpinisti (senza considerare il rischio “a posteriori”, se il boleto in questione si rivela un satanas). Insomma, diciamocelo, la montagna offre una bella gamma di pericoli, per qualsiasi tipo di utente e da qualsiasi parte la prendi.

Val di Mello e Mont Greuvetta. Due tragedie con tante similitudini

Ci sono stati però due episodi recenti, di cui si è molto discusso, che mi hanno particolarmente colpito. Quello del 29 maggio sul Precipizio degli Asteroidi in Val di Mello: tre giovani finanzieri, tutti appartenenti al Soccorso alpino, cadono sulla quinta lunghezza di Amplesso Complesso, secondo Paolo Masa (uno degli apritori del 1981, insieme a Enrico Tico Olivo, Jacopo Merizzi, Piera Panatti) “una delle vie più belle della valle… terreno di super avventura affrontato con il minimo di attrezzatura e una grande quantità di audacia”. Il secondo episodio il 14 luglio, sulla Est del Mont Greuvetta: due alpinisti precipitano al penultimo tiro della via Manera-Sant’Unione, il terzo fermo alla sosta sottostante si salva per la rottura della corda. Ugo Manera e Claudio Sant’Unione avevano aperto questa “diretta” nel 1974, otto anni prima che il bivacco Comino fosse costruito, e la “formidabile lastra” della Est, secondo le parole di Manera, era ancora vergine.

Molte le similitudini tra i due incidenti: entrambe le vie sono alpinistiche e non sportive, corrono su un terreno d’avventura poco protetto o poco proteggibile, quindi anche pochissimo ripetute. In entrambi i casi le cordate erano composte da alpinisti esperti, soccorritori o appartenenti al CAAI. E per tutt’e due gli incidenti, la “colpa” è stata data al cedimento della sosta, da cui le tante polemiche sulla sicurezza e infervorate discussioni (soprattutto in rete) sull’attrezzatura fissa in sosta e in via. Ma in entrambi i casi è stato anche ipotizzato un crollo naturale: tutto da verificare, ma con le attuali condizioni di fragilità della montagna potrebbe essere.

Quelle polemiche sulle protezioni

La mia prima considerazione riguarda proprio le soste. Tra i “fondamentali” delle scuole di alpinismo è proprio l’attrezzatura di una buona sosta: un tempo ci si contentava di un chiodo o un fittone ad anello, il giovane Messner scriveva che preferiva sempre averne due (e una volta, sul Baffelan, il secondo chiodo da lui piantato gli salvò la vita), oggi ci sembra insicura qualsiasi sosta che non presenti almeno un paio di fix resinati. Ma l’attrezzatura “sportiva” delle vie alpinistiche è un miraggio, uno “scarico” di responsabilità che non si concilia con la pratica dell’alpinismo. In montagna non possiamo demandare ad altri il compito di mettere in sicurezza un qualsiasi itinerario: lo stesso Merizzi, come riportato da Gognablog, sottolinea che quando una via non è di arrampicata sportiva “ogni tentativo di andare a scoprire delle eventuali responsabilità in persone terze cozza contro il più elementare principio dell’alpinismo, quello secondo il quale ciascuno deve essere responsabile del proprio operato”.

La seconda considerazione è che, se davvero su quelle pareti di granito che ci appaiono così solide si sono verificati dei crolli, questo non è altro che la conferma di una nuova fragilità della montagna. Il pilastro Bonatti sul Petit Dru non esiste più, la Nord del Cengalo e la celebre Geiser-Lehman sono state cancellate, la cresta del Leone sul Cervino continua a cambiare morfologia, per non parlare delle Dolomiti e delle loro frane costanti, dalle Cinque Torri al Sorapiss: la montagna seguendo il principio della gravità ha sempre subito crolli, oggi di più. Possiamo avere le soste più solide del mondo, ma l’evento catastrofico resterà sempre imprevedibile. Se vogliamo continuare a essere alpinisti, dobbiamo accettare un aumentato grado di fatalità.

A questo punto, ultima considerazione, avrei deciso che gli orsi li mettiamo nella casella dei pericoli oggettivi. L’orso fa il suo mestiere: cerca cibo, difende il territorio, protegge i suoi cuccioli. E anche la montagna fa il suo mestiere: si ghiaccia, si sghiaccia, crolla e si modifica, mentre le spinte tettoniche impercettibilmente la trascinano verso l’alto. Né la montagna né l’orso sono assassini, siamo noi piccoli uomini che, spesso, non li capiamo.    

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