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Guido Monzino: esploratore, alpinista e mecenate. Ma soprattutto, sognatore


Imprese spesso impossibili realizzate grazie a impareggiabili capacità organizzative. Da rivivere al Museo delle Spedizioni allestito nella sua ultima dimora, sul Lago di Como.

«La sofferenza è stata immensa, ma non assurda; perché per sostenere le più alte espressioni del pensiero umano la via per ascendere è estenuante ed è necessario percorrerla con volontà forte e determinazione certa». Così scrive Guido Monzino nel suo libro La spedizione italiana all’Everest 1973, pubblicato nel 1976. Parole in cui qualunque alpinista e appassionato di montagna può riconoscersi: un risultato sublime richiede uno sforzo immane, sostenuto da un convincimento interiore altrettanto potente.

Origini nobili – era conte – e grande ammiratore del Duca degli Abruzzi, Guido Monzino (1928-1988) con le sue ventuno spedizioni ha segnato la storia dell’alpinismo italiano del Novecento. Dalle Alpi all’Himalaya, dalle vette africane come il Monte Kenya, il Kilimanjaro o i massicci del Sahara, alle Ande e alla Groenlandia, il cuore dell’esploratore e mecenate è sempre stato sedotto dalla sfida che i luoghi più estremi pongono senza mai lasciare, però, nulla al caso. Monzino amava l’avventura, ma era efficiente e organizzato. Pianificava tutto per non correre rischi inutili. I suoi uomini li ha sempre riportati a casa, sani e salvi, e non è poco.

Dai grandi magazzini milanesi all’esplorazione dei mondi più estremi

Guido nasce a Milano nel 1928. Il padre Franco, ragioniere e reduce della Prima Guerra Mondiale, viene stato assunto dai Borletti, che erano suoi parenti, alla Rinascente, dove fa carriera fino a diventare direttore commerciale. Franco si sposa bene, impalmando una nobildonna siciliana, Matilde Alì d’Andrea Peirce, che sognava di fare la cantante d’opera ma si sa, all’epoca, le donne non potevano disporre liberamente della propria vita.

Guido, che porta il nome del nonno paterno, eredita il fascino della madre. Nei primi anni della sua infanzia, il padre è preso da un nuovo progetto, che nel 1931 si concretizza nella creazione di un marchio commerciale tutto suo, Standard, con la sigla Sams (Società Anonima Magazzini Standard). I nomi troppo inglesi, però, a Mussolini non piacevano e nel 1938 i magazzini di Franco cambieranno denominazione diventando Standa.

Monzino è ricco e offre alla moglie e al figlio una vita tranquilla anche negli anni della guerra in una villa sulle sponde del Lario, a Moltrasio. Prima di Clooney e dei russi, Guido si innamora del lago di Como, una passione che lo porterà in seguito ad acquistare la Villa del Balbianello, che da ragazzino aveva iniziato a sognare durante le sue gite in barca.

Il Balbianello sarà la sua ultima residenza e sede del museo da lui voluto che ospita la storia della sua vita da alpinista ed esploratore. Nel frattempo, completati gli studi, nel dopoguerra per il giovane Guido è pronto un posto di lavoro nell’azienda di famiglia. Sarà direttore generale della Standa fino al 1966, anno in cui l’azienda viene acquisita dalla Montedison. 

Il primo viaggio a 27 anni, nell’Africa occidentale

In parallelo all’attività di manager, negli anni Cinquanta Guido inizia ad appassionarsi alla natura e ai viaggi. Nel 1955, all’età di 27 anni, si regala una vacanza originale: percorre in due mesi con tre compagni 3500 chilometri fra Senegal, Guinea e Costa d’Avorio. È il suo battesimo nel mondo dell’avventura.

L’amore per la montagna nasce da una scommessa: lui che non aveva mai scalato alcuna vetta, né aveva esperienze d’alpinismo, si professa capace di arrivare in cima al Cervino. E lo fa: nel 1956 è capo spedizione di un’impresa che lo porta alle Grandes Murailles, dove in due fasi – a luglio e poi a ottobre – conquisterà oltre al Cervino una rosa di quattromila che in una volta sola faranno di lui un alpinista degno di rispetto, dallo Schwarzhorn (4334 m) alla Punta Gnifetti (4559 m), dalla Dufour (4633 m) al Dent d’Hérens (4173 m).

Monzino non improvvisa: si prepara per circa nove mesi e recluta alcune guide alpine della Valtournanche, con Jean Bich come capo guida. Nessun dettaglio è lasciato al caso, Guido pensa alla logistica e all’attrezzatura e persino alle coperture assicurative di ogni partecipante. La stoffa del futuro manager si rivela nei dettagli organizzativi, nel saper prevedere ogni rischio e soprattutto, durante l’impresa, nella capacità di prendere decisioni difficili per proteggere la vita delle persone.

La montagna lo ammalia. Tra novembre 1957 e febbraio 1958 Monzino sfida il Cerro Paine e le Torri del Paine in Cile, insieme a Jean Bich, di nuovo capo guida, e alle guide alpine Gino Barmasse, Toni Gobbi, Marcello Carrel, Pacifico Pession e Camillo Pellissier. C’è anche un alpinista cineoperatore a filmare l’impresa e una vetta, la Torre Nord, viene intitolata a Guido Monzino.

Dopo il Sud America, è la volta del Karakorum: la vetta del Kanjut Sar (7760 m) dà un bel filo da torcere agli italiani, ma il 19 luglio 1959 è conquistata. «A nulla sarebbe valso ogni sforzo compiuto, se io non avessi potuto contare su uomini preparati e fedeli: sulle mie guide di Valtournenche, sui miei uomini del Cervino», dirà in seguito il capo spedizione. Gli anni successivi, Monzino si allontanerà dalla sua routine di lavoro milanese per sfidare nuove vette, deserti e luoghi impervi: il Kilimanjaro, il Monte Kenya, il Ruwenzori, il Tibesti, l’Hoggar algerino, poi numerose traversate in Groenlandia, che lo rendono di casa nelle terre artiche. 

1971, al Polo Nord: un sogno coltivato a lungo

Il Polo Nord è da sempre una meta ambita dagli esploratori, italiani inclusi. Basti pensare a Luigi Amedeo di Savoia e Umberto Cagni, che nel 1900 non raggiunsero il Polo, ma si spinsero alla latitudine nord più estrema mai raggiunta. O a Umberto Nobile e al dirigibile Italia. Anche Guido Monzino sogna di raggiungerlo, e vuole farlo a modo suo: con le slitte trainate dai cani, senza mezzi meccanici, ma con un’organizzazione impeccabile di supporto.

Come al solito, Monzino è disposto ad accollarsi i costi di tutto quanto servirà. Per familiarizzare con il territorio, tra il 1969 e 1970, Guido esplora e si prepara. Poi, con il cileno Arturo Aranda, già stato in Antartide, e con i valdostani Mirko Minuzzo e il 19enne Rinaldo Carrel – figlio di Marcello Carrel, che era con Monzino alle Grandes Murailles – l’impresa prende avvio a Qaanaaq, in Groenlandia, dove il capospedizione è chiamato a risolvere qualche diatriba con i danesi la cui presenza gli è imposta dalle autorità e con i rifornimenti, soprattutto di cibo per i cani, preziosi compagni di viaggio. Facendo alcuni trasporti in aereo, sistema le basi con i viveri e materiali, e finalmente il 3 aprile 23 slitte con 330 cani e 23 Inuit si inoltrano verso il deserto di ghiaccio.

Il viaggio non è uno scherzo: le temperature stanno salendo, alcuni eschimesi non vogliono più proseguire, la banchisa si sta crepando. La sosta presso la base T3 rincuora il gruppo. Monzino non demorde di fronte ai problemi e il 19 maggio 1971 raggiunge il Polo Nord, facendo sventolare la bandiera italiana.

Una curiosità: fra le guide artiche giunte al Polo, ci sono anche due nipoti di Robert Edwin Peary e un nipote di Matthew Henson. Un’altra curiosità, che farà inorridire gli animalisti: i membri della spedizione sopravvivono al meglio ai rigori artici grazie agli abiti cuciti dalle donne inuit di Qaanaaq: giacconi in pelliccia di caribù, pantaloni in pelo di orso, stivali in pelle di foca foderati di pelliccia di coniglio artico. Gli antichi saperi della gente del luogo funzionano sempre.

La spedizione affronta un viaggio di rientro a dir poco rischioso, tra lastroni di ghiaccio alla deriva e pack in movimento, e dopo 71 giorni e circa 5000 km in slitta sulla banchisa si conclude.

1973, l’anno dell’Everest

A Monzino non resta che espugnare il Tetto del Mondo: l’Everest (8848 m). L’alpinista milanese ha ormai 45 anni, non è più il ventenne delle prime ascensioni. Coinvolge in questa nuova sfida le autorità militari italiane, che rispondono positivamente: i partecipanti – molti sono Alpini – sono accuratamente selezionati, devono avere le capacità fisiche e psicologiche per affrontare il gigante himalayano.

Al fianco del capo spedizione, ci sono i suoi fedeli compagni Mirko Minuzzo, Rinaldo Carrel e Arturo Aranda, mentre Lhakpa Tenzing e Gyaljien Sonam sono rispettivamente il capo e il vice capo sherpa, al comando di un enorme stuolo di personale locale.

La spedizione ha anche il patrocinio del CAI. Obiettivo è portare per la prima volta il tricolore italiano in cima alla montagna più alta del mondo.

L’ascesa è tradizionale, ma Monzino vuole la presenza di alcuni elicotteri Agusta Bell 205, per salvare vite in caso di necessità. La lunga marcia verso il campo base vede coinvolti 150 persone fra italiani e sherpa e un’infinità di portatori e yak. Proseguono con successo, allestendo i campi 2, 3 e 4, poi il 5 a quota 7985 m e il 6 a 8513 m, a un soffio dalla vetta.

Vent’anni dopo Edmund Hillary e Tenzing Norgay, due cordate italiane raggiungeranno l’apice del gigante. La prima, il 5 maggio 1973 è composta dai due alpinisti della Valtournanche, Minuzzo e Carrel, e dagli sherpa Lhakpa Tenzing e Shambu Tamang. La seconda, di cui fanno parte il capitano dei Carabinieri Fabrizio Innamorati, il maresciallo degli Alpini Virginio Epis e il sergente maggiore degli Alpini Claudio Benedetti, insieme allo sherpa Gyaljien Sonam, raddoppia il successo italiano il 7 maggio.

E Monzino? Il capo spedizione preferisce restare al campo base. Come un bravo direttore d’orchestra guida i suoi musicisti, così il mecenate alpinista dirige tutte le fasi della spedizione. Inclusa la controversa decisione di rientrare, di fronte al peggioramento delle condizioni atmosferiche. Al ritorno in Italia, l’accoglienza è trionfale: il 2 giugno, in occasione della festa della Repubblica, la spedizione italiana all’Everest sfila a Roma ai Fori Imperiali. Per Guido Monzino è la sua 21esima e ultima spedizione, conclusa in bellezza, con la Gran Croce al merito della Repubblica Italiana assegnata durante un ricevimento in Quirinale, la benedizione del Papa e un’infinità di altri riconoscimenti.

La villa del Balbianello e il Museo delle Spedizioni

A 45 anni, Guido Monzino ha solo un ultimo desiderio da realizzare, il suo sogno di ragazzino. Nel 1974, acquista la Villa del Balbianello sul lago di Como, con l’obiettivo non solo di risiedervi, ma anche di creare uno spazio che racconti delle sue imprese e un centro geografico. La villa e il giardino vengono restaurati, l’imprenditore si dedica con passione a questa nuova impresa. Quando muore per infarto nel 1988, ha solo sessant’anni. Non avendo eredi, decide di lasciare la sua abitazione con il suo patrimonio di documenti, oggetti e collezioni al FAI, rendendo così possibile la visita a questo luogo incantevole e in particolare al Museo delle Spedizioni, allestito con attrezzature utilizzate durante le sue avventure, fotografie d’epoca e preziosi documenti.

Un’antica nevera del giardino, dove una volta si tenevano gli alimenti al fresco, è diventata l’ultima dimora del suo corpo. Intanto nel firmamento, l’asteroide 31244, scoperto nell’anno della sua scomparsa da due soci dell’Osservatorio Astronomico di Sormano, nel Triangolo Lariano, viene battezzato con il suo nome. È bello pensare che forse da lì la sua anima abbia spiccato il volo per esplorare l’infinito spazio. 

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