AlpinismoGente di montagna

A tu per tu con Francesco Ratti al ritorno dalla Patagonia

La salita del Pilastro Goretta al Fitz Roy è stato il momento più importante della recente spedizione in Sud America dell’alpinista lecchese ma ormai valdostano d’adozione

Non è un neofita della Patagonia. Francesco Ratti, atleta del team Millet, ci era già stato due volte. Nel 2015 aveva ripetuto due vie importanti, la Carrington-Rouse sull’Aguja Poincenot Greenpeace sul Cerro Piergiorgio. Poi l’anno scorso, per aprire una nuova via sull’Aguja Guillaumet. Questo inverno l’alpinista di Valtournenche ha colpito ancora, con una importante ripetizione in terra argentina insieme ai compagni di cordata Alessandro Baù e Claudia Mario.

“Da qualche anno sognavo di salire il Pilastro Goretta. Una via storica in un ambiente incredibile. Così sono partito con l’amico Alessandro Baù, ormai socio di cordata in diverse avventure, e sua moglie Claudia Mario che è una brava scalatrice”, esordisce Ratti.

Il trio arriva a El Chalten poco prima di Natale e subito si lancia in una salita di ambientamento sull’Aguja Guillaumet. Ci siamo. “A fine anno arriva una finestra di bel tempo di tre giorni. Bel tempo ma vento abbastanza forte, che in Patagonia non è mai da sottovalutare. Tuttavia, abbiamo deciso di azzardare e partire”, racconta l’alpinista.

Direzione: il granito del Fitz Roy. Più precisamente il Pilastro Goretta, un siluro di 800 metri che si stacca dal Fitz Roy, una delle cime mitiche della Patagonia. Il Pilastro ha una storia affascinante. Nel 1978 una spedizione italiana parte alla volta dell’inviolato pilastro nord del Fitz Roy: sono Luigi Zen, Giovanni Maiori e Renato Casarotto. I primi due decidono presto di abbandonare il tentativo, mentre Casarotto vuole proseguire. Da solo. Il 19 gennaio 1979 Casarotto raggiunge la cima del Fitz Roy dopo averne scalato il pilastro nord in solitaria. È la prima volta che quel pilastro viene salito e ancora oggi è l’unica via aperta in solitaria. Unico sostegno morale e psicologico è la moglie Goretta Traverso che lo aspetta con pazienza al campo base. Da questo grande amore e dall’audacia dell’alpinista vicentino nasce il Pilastro Goretta.

Come è nata la scelta di percorrere questa via?

“Amo ripercorrere itinerari storici”, spiega Ratti. “Mi piace immedesimarmi negli alpinisti dell’epoca. Nonostante i materiali e le protezioni che avevano a disposizione facevano cose incredibili. Le difficoltà del Goretta sono impegnative per noi adesso, non oso immaginare negli anni 70. E per di più in solitaria!”

Nel frattempo, son cambiati i materiali ma anche le montagne

“Normalmente l’attacco della via si raggiungeva da un facile canale est di neve. Purtroppo, il cambiamento climatico ha reso inaccessibile e pericoloso questo accesso. Ora bisogna raggiungere il canale ovest che richiede un avvicinamento molto più lungo. Ci abbiamo messo un giorno intero. Abbiamo bivaccato alla base della parete in uno spot davvero suggestivo: un masso incastrato così ampio e liscio da poterci dormire sopra. Poi il giorno dopo abbiamo attaccato la via”.

Ratti, Baù e Mario hanno scalato gli 800 metri del Pilastro Goretta in un solo giorno, lesinando sul materiale per essere più leggeri (“non ci siamo neanche portati la tenda. In questo tipo di salite è di fondamentale importanza la gestione dei pesi e della logistica”). Il terzo giorno, il trio ha raggiunto la cima del Fitz Roy: altri 400 metri dopo la fine del pilastro, prima di roccia ancora sostenuta e poi di misto. Sono poi scesi dalla Franco-Argentina.

Quali sono le peculiarità di una scalata in Patagonia?

“Ci sono montagne e pareti di dimensioni pazzesche, con difficoltà tecniche molto elevate. Questo è molto interessante per me. Poi qui hai la sfida del clima, del freddo, del vento. In pratica ti trovi ad affrontare condizioni climatiche degne di un seimila. Qui,però, la quota non c’è e questo permette di cimentarsi in salite molto tecniche senza aver bisogno di acclimatarsi. Poi c’è la vicinanza con i centri abitati. Sicuramente è un vantaggio avere un paese in cui star bene come El Chalten a portata di mano. Nei giorni di riposo lì si possono trovare tutte le comodità e in questo ultimo viaggio ho anche portato mia moglie e i miei figli. È un bel plus poter passare dei giorni con la famiglia in spedizioni che magari ti costringono un mese lontano da casa. Dall’altra parte, però, quando sei in montagna sei davvero isolato.
A livello di soccorsi, invece, la Patagonia è molto peggio del Nepal. Là sai che almeno al campo base l’elicottero arriva più o meno sempre, qui no. Qui i soccorritori partono a piedi dal paese”.

Tornerai?

“Sicuramente, ho già adocchiato due o tre vie che mi piacerebbe aprire. Comunque, non a breve. I prossimi mesi li passerò sulle Alpi, ho in mente qualche salita per di qui. Poi in autunno mi piacerebbe ripartire in spedizione, questa volta in Himalaya”.


Il tuo rapporto con Millet è ormai consolidato. Perché?  E che attrezzatura (Millet ovviamente) hai utilizzato?

“Collaboro da tanti anni con questa azienda. Il motivo è semplice, la Millet ha una gamma veramente ampia di materiale che riesce a coprire tutte le mie esigenze. Dalla bassa montagna, il trail running, fino ad arrivare all’alpinismo d’alta quota posso sempre contare sul prodotto giusto e realizzato con materiali di qualità. Inoltre il mio alpinismo è fortemente in linea con la visione della montagna di Millet: è un alpinismo di avventura e di ricerca, sempre nel rispetto della natura. Come il team Millet è sempre alla ricerca dell’innovazione, io sono sempre alla ricerca di nuove sfide. In Patagonia ho usato i prodotti della linea Trilogy che sono davvero performanti. Sia a livello di isolamento esterno, che di quello termico interno fino alla traspirabilità sono davvero ottimi compagni delle mie avventure.”

Tags

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close