AlpinismoGente di montagna

A tu per tu con Mathieu Maynadier, stakanovista dell’avventura

Fortissimo sul ghiaccio, sciatore estremo, ma anche anima di un progetto in Pakistan per avviare i ragazzi all’alpinismo in Pakistan. Il campione francese si racconta

Una via aperta sul Meru Sud lo scorso anno, un settemila con gli sci (il Diran in Pakistan), una parete inviolata sul Gauri Sankar, vent’anni di spedizioni in tutto il mondo, svariate nomine al Piolet d’Or, un brutto incidente su una big wall pakistana, centinaia di vie di roccia, ghiaccio e misto salite, a volte aperte. Mathieu Maynadier, o Memé, è uno stakanovista dell’alpinismo. A modo suo… con i capelli spettinati, i pantaloni rigorosamente a vita bassissima e la faccia di chi avrebbe dormito ancora una mezz’oretta. “I believe in nothing except climbing” il suo mantra.

Hai già lasciato il segno in tanti ambiti diversi. Quanto è importante per te cambiare disciplina?

Essere polivalente è la chiave. Ho iniziato con le gare di scialpinismo per poi passare alla scalata su roccia e poi su ghiaccio, ho fatto spedizioni un po’ dappertutto. Amo tanto variare, fare cose diverse. Poi se devo indicare la mia specialità direi sicuramente il misto d’alta quota. Ma alla fine si tratta di un’attività in cui serve essere poliedrico: bisogna saper scalare, avere un buon allenamento aerobico, essere fisicamente forti. Le ascensioni in alta quota, su grandi pareti, richiedono tante capacità diverse. A me è questo che piace fare.

E sono 25 anni che lo fai

Ho iniziato ad andare in montagna molto presto. I miei genitori non sono alpinisti, anzi sono gente di mare. Ma vengo da Briançon che è una zona che pullula di grandi scalatori. Ci sono stati personaggi come Stéphane Troussier e Tony Lamiche che mi hanno preso sotto la loro ala e mi hanno insegnato tanto. I miei genitori non si rendevano conto davvero di cosa facessi e mi permettevano di andare in giro ovunque. A sedici anni avevo già scalato dappertutto nelle Alpi. A 19 sono diventato guida alpina ma non era una vera aspirazione, era più un modo per guadagnarsi da vivere. L’ho fatto per dieci anni, ora, grazie agli sponsor posso fare l’atleta a tempo pieno.

Hai girato tanto. Montagne preferite?

No, non saprei proprio indicare una montagna del cuore o una spedizione preferita. Mi piace la varietà, l’insieme di tutte le esperienze diverse che ho fatto. Alcune spedizioni sono state belle per il risultato sportivo, altre perché ho riso molto. Mi piace sia la performance che l’avventura. Ogni lato delle spedizioni mi affascina.

E non solo di quelle alpinistiche

Da qualche anno ho iniziato a frequentare il Pakistan non solo per i miei obiettivi ma anche per permettere alla gente del posto di scoprire la montagna. Con l’associazione Zom connection raccogliamo materiale tecnico e poi insegniamo ai pakistani a scalare, sciare, chiodare. Il progetto ha avuto successo, adesso ci sono anche persone del posto che scalano il 7b e aprono vie.

Preferisci aprire o ripetere?

In Himalya mi piace aprire nuove linee. Nelle Alpi preferisco ripetere. Obiettivamente le linee più belle sono già state aperte e non ci tengo ad aprire una via brutta solo per metterci il mio nome sopra.

Hai scalato con Ueli Steck, Robert Schaeli, Simon Gietl e tanti altri. Ami il lavoro di squadra?

Assolutamente! Il solo non mi interessa proprio. Per due ragioni. La prima è che in solo ti prendi dei rischi nelle parti non interessanti. Spesso l’avvicinamento alla parete è la parte più pericolosa e non ha senso rischiare lì. In secondo luogo, penso che in montagna il lato umano sia importante. Non è sempre facile, anzi è molto complicato. Io per primo so di aver una personalità forte e a volte posso essere difficile da sopportare. Ma in tutti questi anni di spedizioni ho lavorato tanto su me stesso e sono maturato. E questo è un aspetto molto interessante della montagna.

E la paura?

Trovo banale chi dice che è la paura a tenerti in vita. A volte ho paura e a volte no ma comunque sono sempre vigile. Non ho nessuna voglia di morire e farlo in montagna sarebbe un po’ un fallimento. D’altra parte, accetto l’ingaggio e accetto il rischio. Ma non è quello che cerco. È la tecnica, la difficoltà che mi fa vibrare di soddisfazione e adrenalina, non il rischio. Per esempio, sul ghiaccio mi piace ingaggiarmi su cascate difficili ma non mi interessa per forza salire candele super fragili e aleatorie. Il punto è che se vuoi andare in montagna tutta la vita non puoi sempre arrivare al limite, sennò prima o poi finisce male.

Prossimi progetti?

Adesso sono in Dolomiti, sto girando un film su cascate di ghiaccio e parapendio. A febbraio tenterò la Directe de l’Amitié alle Grandes Jorasses in libera. Sarò con i fratelli Ladevant. Quest’anno cade il cinquantenario dell’apertura di questa via mitica e per ora nessuno l’ha ripetuta in libera. Sarebbe un bel traguardo. Poi a giugno torno in Pakistan, obiettivo Pumari Chhis Centrale, parete sud.

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