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Fred Beckey, l’ultimo romantico dell’alpinismo

“La sera, in tenda, Fred aveva solo tre argomenti: la montagna, il meteo, le donne. E poteva sfinirti”. Fu sempre un personaggio difficile, Fred Beckey, egocentrico, monomaniacale e sciupafemmine. “Stai attento a Fred” dicevano di lui, “ti ruberà le scalate e la moglie”. Dati alla mano, non scherzavano. Ma fu anche un personaggio affascinante: il primo dei vagabondi dell’alpinismo, l’ultimo dei romantici. Montagna.tv gli ha già dedicato un esaustivo ritratto, tre anni fa, ma ne riparliamo volentieri perché quest’anno ricorre il centenario della sua nascita (avvenne il 14 gennaio 1923 a Düsseldorf, in Germania, da dove poi la famiglia si trasferì a Seattle), e perché fino al 24 giugno sarà disponibile, sulla piattaforma inQuota.tv, il bellissimo (e premiatissimo) film prodotto su di lui da Patagonia nel 2017: Dirtbag, The Legend of Fred Beckey.

Fino alla tarda età, Beckey si era rifiutato di parlare di sé stesso, se non attraverso le sue (migliaia di) scalate e le numerose guide pubblicate. Si confidava più facilmente con le sue (decine di) fidanzate, possibilmente dai capelli biondo cenere, ma di ciò non è rimasto traccia. Della carriera alpinistica invece sappiamo tutti i dettagli perché Beckey era un meticoloso trascrittore di ogni singolo passaggio e di ogni singolo chiodo delle vie da lui ripetute o da lui aperte. A partire dalla straordinaria impresa compiuta con il fratello Helmut nel 1942 (19 anni lui, 17 Helmut): la prima ripetizione della Sud del Monte Weddington, una delle più remote e difficili cime tra Alaska e British Columbia.

L’uomo

Il film di Dave O’Leske invece ci porta nell’intimo del personaggio. La macchina da presa lo accompagna negli ultimi anni di vita, ripercorrendo le tappe di quello che fu, senza dubbio, l’alpinista americano più importante del Novecento, ma soprattutto facendoci entrare nelle pieghe della sua tormentata personalità. Alla fine della visione, al netto della sua irripetibile carriera alpinistica, di Fred conosciamo le idiosincrasie e i comportamenti asociali: ruppe i rapporti con il fratello quando questi, alla montagna, preferì una carriera di cantante d’opera; litigò con i numerosi compagni di scalata, arrivando ad abbandonarne uno in pieno deserto; nel 1963 si fece espellere dal team della prima spedizione americana all’Everest (il leader Norman Dyhrenfurth gli preferì Jim Whittaker, che poi conquistò la cima). Conosciamo la sua terribile dieta a base di junk food, l’abitudine a dormire in un sacco a pelo per strada, il suo rifiuto per ogni convenzione sociale, lavoro fisso, famiglia. Solo le scalate, un amore terribile e corrisposto per la montagna, erano il suo orizzonte, e lo fu per oltre ottant’anni: l’obiettivo lo segue, ancora a 93 anni, in una faticosa, insensata ultima scalata. Alla fine della quale, con un ghigno degno di John Carradine, afferma: “Sono felice”.

Il suo personaggio maledetto risalta ancora di più in contrasto con le voci che via via, nella pellicola, lo raccontano. Altri grandi alpinisti che si sono fatti un nome (e spesso grandi capitali) diventando essi stessi un brand, come Yvon Chouinard, Royal Robbins, e perfino un Messner che dichiara: “Dopo ottant’anni l’alpinismo diventa noioso: Beckey dovrebbe smettere e fare qualcosa di più creativo”. Invece Dirtbag non si è mai annoiato. Non si è mai arricchito. Al di là dei circoli specialistici, non è mai diventato famoso. E fino all’ultimo, la sua creatività l’ha rivolta alla roccia e al ghiaccio. Il suo centenario serve a riflettere (per chi ne ha voglia) sul rapporto tra alpinismo, e in generale l’industria dell’avventura, e mercato; sul prezzo da pagare per scelte estreme; sul concetto di purezza. Tutte cose scomode, come Beckey. Fosse nato sulle Alpi, Fred Beckey avrebbe forse oscurato personaggi come Bonatti o Desmaison; sulle Rockies rimase se stesso, un selvatico Kerouac dell’alpinismo, il più grande, il più misconosciuto.

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