Ambiente

Prati in fiore e impollinatori: l’emergenza silenziosa

Tutti apprezziamo i bei prati fioriti: cosa c’è di meglio per fare un bel picnic? Non si può dire che apprezziamo sempre moltissimo anche gli insetti che in quei prati svolazzano… Eppure sono importantissimi, sia per la biodiversità che per quello che mangiamo. Abbiamo cercato di capire l’importanza della loro presenza con Paolo Fontana, entomologo, ricercatore presso la fondazione Mach e presidente della World Biodiversity Association.

Chi sono gli impollinatori

Quando si parla di impollinatori si parla di animali, cioè organismi che hanno la capacità di spostarsi in maniera mirata da un fiore all’altro della stessa specie, che visitano questi fiori per motivi alimentari, si sporcano di polline e poi andando alla ricerca di un’altra fonte sicura di cibo – quindi grazie ai messaggi visivi, olfattivi e chimici di questi fiori, delle vere “pubblicità” per le piante, – vanno su un fiore simile e compiono quindi l’impollinazione. Questo è un meccanismo di cui si è avvantaggiato e su cui ha basato la propria evoluzione un certo tipo di piante, le fanerogame o magnoliofite. Tutto è iniziato 100-110 milioni di anni fa, e ha coinvolto un gran numero di specie animali che, guardando a livello globale, comprende mammiferi – come le volpi volanti e i pipistrelli -, uccelli – come colibrì e nettarine -, rettili, molluschi, artropodi e soprattutto insetti.

Essendo gli organismi più vari e numerosi al mondo, sono soprattutto gli insetti a fare da impollinatori; la maggior parte di essi è caratterizzata da un volo efficace e dalla possibilità di approfittare del cibo offerto dai fiori, che si tratti del polline stesso o del nettare. Quindi abbiamo farfalle, falene, coleotteri, mosche di vario tipo e poi imenotteri, come formiche, vespe e api.

Il caso delle api

Le api, rispetto agli altri impollinatori, hanno però un qualcosa in più. L’evoluzione è bizzarra e ha fornito alcune specie di questi imenotteri di una peluria particolare, che con l’attrito dell’aria, gli urti del pulviscolo atmosferico e l’energia impressa dal volo guadagna una carica elettrostatica, rendendo ancora più semplice per loro riempirsi di polline. In più, gli altri insetti fanno da impollinatori in età adulta, cercando polline e nettare per avere le forze per riprodursi a loro volta. Le api, invece, proprio per questa grande capacità di raccogliere il polline, hanno basato tutta la loro alimentazione su di esso e sul nettare dal punto di vista energetico

Quando si parla di api, però, si compie l’errore di identificarle molto spesso con l’ape mellifera: eppure nel mondo ci sono 25.000 specie conosciute, di cui 2.000 in Europa e 1.017 ad oggi in Italia. Molte di queste 25.000 specie sono minacciate di estinzione perché i loro habitat e i loro siti di nidificazione vengono distrutti, altre specie vedono ridotta la loro popolazione o vedono disgiunti i loro areali – con tutti i problemi di diversità e genetica che ne possono derivare. C’è chi sostiene che l’ape mellifera non è certo un organismo che si sta estinguendo perché il numero di alveari nel mondo sta aumentando sempre più… Questa però è un’analisi molto semplicistica: innanzitutto l’ape mellifera non è un animale domestico, ma selvatico, che l’uomo riesce ad allevare (un po’ come succede con branzini o pernici, ma mai ci sogneremmo di definirli domestici). Ci sono degli animali allevati che in natura si estinguono.

La perdita delle api

Il declino delle api è un fenomeno molto complesso, legato a diverse problematiche, ma la prima fra tutte è senz’altro la modificazione degli habitat e della flora. Facciamo fatica ad accorgerci di quanto povero floristicamente sia oggi il nostro territorio: chi, come Fontana, alleva api da oltre 30 anni, si rende conto che questa diversità floristica sta precipitando. La perdita di ambienti prativi è una vera e propria emergenza ecologica: da una parte l’abbandono dei pascoli e dall’altro l’incremento dell’attività umana con monocolture e pesticidi stanno distruggendo questo tipo di ambiente. I pesticidi appena menzionati sono un problema gravissimo perché il loro effetto negli ambienti agrari rende impossibile la sopravvivenza di una biodiversità funzionale all’agricoltura stessa. Oltre un terzo (c’è chi dice la metà) di quello che mangiamo dipende da un servizio di impollinazione, ma la maggior parte degli ambienti agrari sono ormai sterili e quindi in quella settimana o in quei 15 giorni in cui la coltura fiorisce bisogna portare api da fuori. Da un certo punto di vista, però, è come se l’apicoltura fosse stata usata come alibi per poter utilizzare più pesticidi: se ci si dovesse basare solo sugli impollinatori selvatici questo non sarebbe stato possibile. In più, le modificazioni climatiche stanno devastando il rapporto di animali così strettamente legati alle fioriture. L’inquinamento genetico è un altro problema che è stato messo in luce solo recentemente e su cui oggi gli scienziati sono tutti concordi per quanto riguarda le specie allevate di api. L’ape mellifera, originariamente distribuita tra Europa, Africa e Medio Oriente, è suddivisa in oltre 30 sottospecie; gli apicoltori europei e americani hanno cominciato a tentare di risolvere i problemi derivanti dall’ambiente e dai pesticidi selezionando le api e spostandole in un modo che sta disgregando la struttura genetica dell’ape stessa.

In montagna gli impollinatori non stanno meglio

Gli impollinatori sono fondamentali per conservare la flora, che a propria volta è fondamentale per permettere la vita di questi impollinatori, in un circolo vizioso. Tutto quello che ostacola il lavoro degli insetti ostacolerà anche la riproduzione delle piante, e se si riduce la diversità delle specie vegetali i prati finiranno per essere sempre più vuoti e silenziosi.

Negli ambienti montani non ci sono situazioni così rosee come potrebbe sembrare: se guardiamo il Trentino – Alto Adige ci sono situazioni molto critiche per la conservazione della biodiversità e degli impollinatori. La diffusione di coltivazioni molto specializzate e molto redditizie da un lato arricchisce la zona e permette che questi territori montani siano abitati, dall’altro però se si pensa alla viticoltura, alla frutticoltura e alla coltivazione dei piccoli frutti, alla zootecnia non più basata sul fieno ma su concentrati e altre fonti di alimenti, il risultato è che le superfici prative e i pascoli vengono sempre più ridotti. Molte aree vengono anche abbandonate, soprattutto quelle “marginali”, come i prati in pendenza che non possono essere meccanizzati, con conseguente avanzata vertiginosa di ambienti boschivi non sempre così favorevoli alle api – perché forniscono loro cibo solo per una porzione limitata di tempo. Le pianure e le aree più facilmente meccanizzabili sono prive di alberi e di biodiversità vegetale, mentre le zone in pendenza vengono ricoperte di boschi. Purtroppo oggi molti ragionano sulla base di slogan, un po’ come “piantiamo più alberi!”, o su singoli indicatori (come quello della CO2). Anche in quel caso bisogna capire quali alberi, dove piantarli, magari in alcune zone è meglio lasciare i prati. È estremamente utile la segregazione del carbonio, ma cum grano salis: è necessario garantire la biodiversità poiché è il solo strumento a disposizione della natura per resistere a quanto sta accadendo.

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Un commento

  1. C’è chi nega il problema e dice: l’umano è presente sulla Terra in 8 miliardi, gli uccelli in 500 miliardi e gli insetti in 1 miliardo di miliardi………. e solo tutte le formiche pesano come tutti gli umani.
    Il problema non sussiste.
    Geniale terrapiattista !!!

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