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Sulle montagne di tutto il mondo la neve resiste sempre meno

Nell’arco di 40 anni le montagne del mondo hanno perso in media due settimane di copertura nevosa l’anno. La neve scompare sempre prima, e anche l’estensione del manto nevoso mostra una tendenza alla diminuzione. A dimostrarlo uno studio di Eurac Research pubblicato di recente sulla rivista Scientific Report, del gruppo Nature.

La conferma di una tendenza già evidente

Lo studio dal titolo “Overall negative trends for snow cover extent and duration in global mountain regions over 1982–2020” fa seguito, rafforzandone i risultati, a una ricerca pubblicata due anni fa (Hotspots of snow cover changes in global mountain regions over 2000–2018″, Science Direct), in cui, dalla elaborazione di una mappa della copertura nevosa a livello globale, si stimava una riduzione della neve nel 78% delle aree montane di tutto il mondo.

“L’analisi di quasi vent’anni (2000- 2018) di immagini satellitari in alta risoluzione, misure a terra e modelli di simulazione mostra un quadro non felice soprattutto in alta quota. Sopra i 4000 metri, infatti, tutti i parametri osservati – tra cui estensione della superficie nevosa, durata della neve, temperatura dell’aria – sono in peggioramento – scriveva in occasione della pubblicazione l’Eurac –  La mappa mette in evidenza come ci siano zone che risentono dei cambiamenti climatici in misura maggiore. In Sudamerica, ad esempio, più di venti parametri mostrano una tendenza in peggioramento, mentre sulle Alpi la situazione è meno grave, anche se il settore orientale soffre di più rispetto a quello occidentale.”.

Per irrobustire le osservazioni riportate nel paper del 2020, la medesima autrice, la dottoressa Claudia Notarnicola, fisica, vicedirettrice dell’Istituto per l’osservazione della Terra di Eurac Research, ha esteso le ricerche al 1982, coprendo così quasi 4 decenni.

Un bilancio sconfortante

“Con poche eccezioni, i dati sia sulla estensione sia sulla durata della copertura nevosa sono in netta diminuzione”, dichiara l’autrice in un comunicato dell’Eurac Research.

Un bilancio sconfortante quello tracciato tra il 1982 e il 2020.“L’analisi delle serie storiche armonizzate su 38 anni indica un andamento complessivamente negativo di − 3,6% ± 2,7% per l’entità del manto nevoso annuo e di − 15,1 giorni ± 11,6 giorni per la durata del manto nevoso – si legge nel paper – . La stagione più colpita da andamenti negativi è l’inverno con una riduzione media del manto nevoso di − 11,5% ± 6,9%, e la stagione più colpita da variazioni positive è la primavera con un aumento medio del 10% ± 5,9%, quest’ultima principalmente localizzata nell’Alta Asia (High-Mountain Asia, HMA).”

Il trend di diminuzione della copertura nevosa risulta coerente con le osservazioni sulla temperatura dell’aria superficiale effettuate in aree montane, come il Nord America occidentale, le Alpi europee e l’HMA, che mostrano un tasso di riscaldamento di 0,3 °C ± 0,2 °C per decennio.

Il valore medio di 15 giorni in meno di copertura nevosa arriva a raddoppiare in alcune aree del Canada occidentale, zona in cui si sono rilevati picchi fino a 30 giorni in meno.

Nel corso di 38 anni vi sono state anche delle fasi di controtendenza, con aumento in estensione o durata della neve. Ad esempio, agli inizi degli anni ottanta l’eruzione del vulcano messicano El Chichon ha provocato un lieve raffreddamento, che ha dunque limitato la diminuzione della neve, ma si è trattato di un fenomeno circoscritto nel tempo.

“In generale in questi 38 anni di analisi si registrano anche aumenti sia nella copertura sia nei giorni di neve. Riguardano per esempio alcune zone dell’Asia Centrale e alcune valli degli Stati Uniti, tanto che Donald Trump ha spesso evocato queste nevicate intense nei suoi tweet per smentire i cambiamenti climaticispiega la dottoressa Notarnicola – . Non ci sono spiegazioni concordi per questi fenomeni, ma potrebbe trattarsi di altri effetti dei cambiamenti climatici, per esempio variazioni nelle correnti e nei venti o specifiche condizioni microclimatiche. In ogni caso, si tratta di eccezioni in un contesto globale molto negativo”.

Lo studio è stato svolto seguendo un approccio ibrido, unendo le serie storiche di dati satellitari MODIS, con una risoluzione di 500 metri disponibili dal 2000, a modelli matematici. Come spiega l’autrice, “ho scelto come base un modello globale della Nasa già molto valido e l’ho ulteriormente affinato. Per il periodo in cui coesistevano i dati del modello e le immagini satellitari più precise ho potuto infatti calibrare meglio il modello grazie alle cosiddette “reti neurali artificiali”, cioè un sistema di calcolo che rientra negli strumenti dell’intelligenza artificiale.”

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